16 febbraio 2010

I ‘cattolici’ e il Pd. Con Uffa finale.

Si sente dire, qua e là, che questa volta, alle regionali, molti voteranno la lista ma non i nomi. Sembra che l’idea sia particolarmente gettonata da una parte dei cd. ‘cattolici’ del Pd. Una proposta inquietante, visto da dove viene. Fosse un ex vetero-comunista a parlare non ci sarebbe di che preoccuparsi. Io, ad esempio, e sino ad età avanzata, non avevo l’abitudine di dare voti di preferenza. Trovavo il costume troppo simil ‘democristiano’. Mentre votare la lista, cioè il partito e basta, era un nobile atto morale. Si vota l’idea, forse la politica. Ciò che è e che sta. Non la persona, comunque, che è transeunte, limitata, per definizione sostituibile. Qui, invece, sembrano in campo intenti diversi. Non un sano/malato rifiuto del ‘personalismo’, bensì delle ‘persone’ albergate nella lista. Una minaccia. Un ricatto morale ventilato. Che prelude, come estrema ratio, a un addio al partito. In effetti c’è un transito in atto verso l’Udc. Nelle politiche del 2008, come noto, diversi voti sono transitati dal Pd-Ulivo all’Udc, a sostituzione di un flusso di analoga rilevanza orientato dall’Udc al Pdl. Chiari segnali di un netto spostamento a destra di parte del voto ‘cattolico’. E’ per inseguire questi voti che Rutelli ha fatto i bagagli, presto seguito da un diffuso corteo di ceto politico. Dunque, dopo il voto, un movimento di classe politica. I ‘cattolici’ tornano al centro. Cioè lasciano la sinistra. Magari per ri-allearsi con essa, ma da posizioni di forza. Imponendo la ‘rendita’ del centro. Con la conseguenza per il Pd di un dilemma: allearsi con questo ‘centro’ (ancora largamente virtuale) impedendone la fagocitazione a destra, oppure combatterlo come un segno di inquinamento ? Che tradotto in voti significa anche: se ne perdono di più facendo buono o cattivo viso al gioco ? Il Pd ha scelto la prima alternativa. Ed è probabile non ne avesse altre. Gli esiti li vedremo dopo le regionali. E tuttavia il tema dei ‘cattolici’ (‘adulti’, come si è definito il più importante, cioè Romano Prodi) ha uno spessore ben più vasto di quanto lascia intravedere il movimento dei transfughi. Il Pd voleva significare un doppio movimento: l’incontro dei ‘cattolici democratici’ con la sinistra, e un nuovo modello di integrazione, nel quale di diverse appartenenze si sarebbero dissolte nella nuova identità. C’è un termine del lessico hegeliano che connota con precisione questo processo: Aufhebung. Letteralmente: “togliere per sollevare”. Nel procedimento dialettico il terzo momento, lo stadio speculativo o positivo-razionale, ovvero la conciliazione con l'universale astratto (Enc.C, § 79). L’output finale doveva essere l’autosuperamento delle identità costituenti in una identità capace di ricomprenderle a un livello più alto. Allora sarebbero nati i ‘democratici’, senza più aggettivi, reclusi, al più, ove persistenti, nella sfera interiore della biografia esistenziale. Cioè ‘secolarizzati’. Tradotta in sostanze l’alchimia democratica era il crogiuolo dove avrebbero dovuto fondersi i nobili metalli delle tradizioni costituenti: lo spirito di disciplina, l’organizzazione, le istanze collettive di emancipazione, i profili morali del socialismo, cioè quanto sedimentato dall’esperienza del comunismo italiano (ed emiliano) e i significati teorici (trascendenti) e pratici del ‘personalismo comunitario’ di matrice cristiana, con la ricchezza dei suoi mondi vitali di ‘privato sociale’. Nella cornice rinnovata del patto costituzionale, con il suo liberalismo socialmente orientato. Un welfare con l’anima, l’organizzazione più l’autonomia comunitaria, la disciplina e la competizione democratica, la regolazione politica più la partecipazione, un mercato ‘sociale’, senza corporazioni ma neppure atomizzato. Un partito di pluralismo politico-programmatico, non una congerie settaria di tribù tardo-ideologiche, ovvero post-ideologico. Questa Aufhebung, hainoi, è ben lontana dal venire. Per ragioni complesse e molteplici sino ad ora hanno imperversato gli ‘effetti perversi’ e i ‘riflessi condizionati’. Una tradizione persistendo come vuoto burocratismo, autoterefernza, gelida composizione di equilibri e poteri, l’altra riproponendosi come smaccato ed anarchico individualismo, piccolo notabilato e adunanza corporativa. Accade così di sentire parlare del mancato rispetto, nelle liste, di ‘sensibilità’ plurali. Come che la composizione di una lista e il suo dosaggio arlecchinesco (in verità una ‘lisca’ di pesce, persino decomposto) potesse surrogare l’Aufhebung che non c’è. Si dice Ds e vien fuori ciò che resta delle solidarietà di un apparato un tempo potente e rispettato. Si dice ‘cattolici’ e vengono fuori Tizio, Caio e Sempronio. Tutti con il ditino alzato a rivendicare la patente ‘autentica’ del vero cattolico. Già, perché quando ce n’è uno, vattelapesca se rappresenta i ‘cattolici’. Questo del resto era la Margherita: una assemblea permanente e rissosa di notabili e aspiranti tali, perennemente convocata nella redazione di liste. Un piede nel ‘privato sociale’, la memoria nella gioventù parrocchiale, l’altro piede nella politica. Due gambe divaricate. Con i coglioni (purtroppo i nostri) girati.

Alla fine la lista (regionale) resta quella che è. Se è poco attraente, lo sarebbe stata ancor meno ove avesse adito a questa richiesta di ‘pluralizzazione’ dei vari noumeni (e fenomeni) che si aggirano sulla scena. Perciò resto sul piano accademico. Fosse stato per me, ovvero un’ipotesi megalomenica di incarnazione dell’universale astratto, la lista l’avrei compilata così:

1. suddivisione del territorio federale in tre ambiti (tra l’altro, scontata l’elezione del candidato imolese, il più perfetto dei ‘masi chiusi’, tre sono in previsione gli eleggibili): pianura, città, collina-montagna;

2. avvio di procedure di partecipazione territorializzate (primarie, consultazioni, assemblee di iscritti). Ampia libertà nei metodi, ma con l’unico scopo di una sintesi efficace sulla scala territoriale;

3. formazione di una testa di lista composta da tre ‘leader territoriali’, ciascuno per il territorio di pertinenza; rappresentativi per la forza dei legami trattenuti con il territorio e per l’eventuale expertise agibile sulla scala regionale;

4. impegno del partito a sostenere la testa di lista, lasciando libera circolazione al personale di complemento (tratto da correnti, sensibilità, mondi sociali, se esistenti, e quant’altro…);

5. vincolo tassativo ai candidati di sottoscrivere, ove eletti, quota parte significativa dei loro emolumenti al partito.

Modello semplice, come si vede, forse illuministico e dilettantesco, ma con una duplice intenzione:

a. Recuperare in via di fatto la logica uninominale andata tragicamente perduta con il porcellum, ma colposamente subita dal Pd; alla ricerca del ‘valore aggiunto’ territoriale e della responsabilizzazione degli eletti davanti all’universalità di un elettorato non astrattamente sublimato nel partito, ma geograficamente determinato;

b. Dare un segnale di contro-tendenza almeno in direzione del lato più prosaico, ma visibile come mai in epoca di gravi ristrettezze economiche, della cd. ‘casta’. Son rimasto un marxista, cioè fra tante anime nobili, un gretto materialista. Alla fine l’essere sociale determina i comportamenti dell’uomo. Per salire in vetta all’ideale bisogna essere più leggeri.

Per il resto chi se ne vuole andare, vada dove lo porta il culo. La pianta potata, è noto, cresce meglio. E’ vero che la regola piaceva assai al vecchio Dzugasvili. Ma c’è una differenza con quel losco passato. Il georgiano imbracciava di suo le cesoie. Amputava (soprattutto le parti sane). Qui la potatura è una libera scelta. Auto-potatura. Che è già un passo che la provvidenza, con la sua hegeliana razionalità, offre verso l’Auto-superamento. Aufbeschneiden (che non so neanche se in tedesco esiste) in attesa dell’Aufheben. Con Aufatmen finale (letteralmente: trarre un sospiro di sollievo). Auffa !

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Come sei bravo Fausto.
E' vero che Vendola ha chiesto a Luxuria di non andare a destra?
Perché non mi hai risposto su Vendola?
Non ti piace?
Ha fatto bene a fermare Luxuria?

Tom

fausto ha detto...

Non sapevo di questo estremo tentativo di Vendola. Che i trans transitino mi sembra peraltro coerente. Come insegna Susanna Tamaro. "Va dove ti porta il..."

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INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

Come raggiungerci: consulta la mappa

Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)