27 agosto 2010

Pd e Coop, cosa c’è dietro le baruffe d’agosto

C’è una imponderabile levità in questa baruffa bolognese che oppone le Coop al Pd. Come fossero all’opera individui pressati da una indecifrata claustrofobia e che per questo si sforzano in ogni modo di allontanarsi dal luogo che li unisce. L’oggetto del contendere è oscuro. Si vedono le Coop che ostentano la diserzione (mai vista) da una nota Festa, nel nome di una rivendicata autonomia, che peraltro non è ben chiaro da chi e dove sia minacciata. Si mormora che la causa immediata di tanto fragoroso dispetto abbia a che vedere con lo scarso riguardo riservato dal Pd a Sita: il prestigioso capo cooperativo in quiescenza che i cooperatori vedrebbero bene come candidato Sindaco. E’ facile notare che se le cose stessero veramente così saremmo di fronte non a una lesa autonomia da parte del partito, ma a una pretesa delle coop di condizionare in via diretta la politica. Un rovesciamento di ruoli letteralmente clamoroso. In passato, nell’epoca aurea della vituperata ‘cinghia di trasmissione’, era infatti il partito che nominava i dirigenti delle Coop, mentre qui sarebbero piuttosto le coop a voler nominare il Sindaco. Partito (Pd) debole, Coop forti. Meglio: ‘proterve’, tanto da superare lo stesso fisiologico potere economico-sociale di lobbying.

Colpa solo di questa inedita hybris delle coop, dunque? Forse la storia è un poco più complessa, e qui si vorrebbe dare qualche lume, citando dati e contesti dei quali i contendenti sembrano colposamente dimentichi. Si osservino queste due figure, tratte da una ponderosa ricerca demoscopica (ben 7.000 interviste) condotta nel 2008 dal MeDeC sulla partecipazione politica nei quartieri di Bologna.

La prima figura mostra le organizzazioni che le persone hanno scelto di indicare come destinatarie, nel corso dell’anno, della loro partecipazione. La tessera ‘socio coop’, a differenza di qualsivoglia carta di credito, conferisce identità e senso di appartenenza. Si nota infatti il primato assoluto delle coop di consumo (23%), e a seguire il forte radicamento dei sindacati (13,6%), nel quadro di una partecipazione con forme vaste e articolate, che nel complesso coinvolge quasi la metà dei cittadini.

Figura n.1: Iscritti o partecipanti (nel corso dell’anno, in %) alle associazioni. Erano possibili più risposte. Fonte: MeDeC 2008. (cliccare sull'immagine per visionarla ingrandita)

La seconda figura misura la fiducia (misurata in voti) riservata a diversi soggetti: economico-sociali, morali e istituzionali. Qui si nota il primato assoluto delle coop di consumo. Ben 73 cittadini su 100 (con solo 16 in posizione avversa, o di bocciatura) conferiscono alle coop un voto di promozione, tra l’altro con una enorme rilevanza dei voti alti (dal 7 al 10). Seguono le multiutility dei servizi pubblici (Hera, Atc ecc.) con il 65,6% di promozioni, e subito a ridosso le piccole imprese con il 62,3. A stretto tallonamento il comune di Bologna si classifica buon quarto con il 60,2 delle promozioni. A seguire il resto. Questa graduatoria conferma la peculiarità storica della società bolognese, centrata su un triangolo fiduciario assai forte (e stando ai dati per nulla scalfito): le coop (ovvero l’economia sociale), le piccole imprese (cioè il protagonismo imprenditoriale diffuso), le istituzioni locali (Comune e multiutility) a rappresentare il Welfare locale e la politica.

Figura n.2: Voti tributati ad alcuni soggetti economico-sociali, morali e istituzionali (voti da 1 a 10, in % sul complesso degli intervistati. Fonte MeDeC 2008). (cliccare sull'immagine per visionarla ingrandita)

Questi dati ci dicono quanto è sostenuta la partecipazione associativa e quanto è riconosciuto dalla gente il ‘modello emiliano’ e, nel suo ambito, il ruolo guida assegnato alle coop (in specie quelle di consumo: vero e proprio veicolo-immagine del mondo cooperativo). In un momento storico, come è noto, e in un paese (l’Italia) nel quale molti legami fiduciari tendono allo sfacelo!

Ma cos’è che sostiene questo ‘modello‘ integrandone le diverse parti? Considerando tutte le possibili variabili influenti, si scopre che ce n’è una capace di spiegare da sé sola l’intero sistema dei rapporti. E’ l’autocollocazione politica a sinistra degli intervistati, cioè la ‘cultura politica’ depositata in un settore particolare, per quanto ampio, della popolazione. Il riquadro che segue offre una stilizzazione di queste determinazioni empiriche. C’è una interazione molto forte fra la partecipazione associativa e la fiducia nelle istituzioni del ‘modello emiliano’. La fiducia nelle istituzioni è inoltre intercorrelata con la ‘fiducia negli altri’, cioè l’apertura solidale verso il prossimo. Ma è l’essere di sinistra che sostiene sia la fiducia che la partecipazione, integrando le diverse parti del modello. Forse il partito, le coop (cd. ‘rosse, in particolare), ma anche i sindacati (la Cgil, in primis) l’hanno dimenticato. Ma nella percezione della gente calpestano lo stesso terreno. Lì sono ancorati dalla ‘cultura politica’ che ancora alberga nella popolazione. Da lì il Pd prende gran parte dei suoi voti, e le coop il prestigio di cui godono (assieme a una vasta clientela partecipante). C’è da dubitare che l’abbandono definitivo del terreno avito, in cerca di nuove intriganti clientele possa portare fortuna, sia al Pd, che alle coop. E’ vero che ci sono altri mondi (e forme di partecipazione) che non possono essere trascurate, anche se hanno sovente un rapporto critico con il ‘modello storico’. Così come è vero che c’è anche gente di destra che non disprezza le coop. Ma sarebbe folle quell’impresa che per guadagnare una quota marginale di neo-clienti butta a mare (o induce alla disaffezione) una moltitudine ben più vasta che si identifica con il marchio.

Figura n.3: Il "modello emiliano". (cliccare sull'immagine per visionarla ingrandita)

Eppure, hainoi!, questa sciagurata inclinazione pare assai diffusa. Il Pd è nato nel ‘regno della politica’, astraendosi programmaticamente dagli attori sociali su cui erano storicamente innervate le forze della sinistra. Oppure, che è la stessa cosa, mettendo tutti i mondi sociali alla stessa interessata equidistanza. Ha cioè rinunciato a definire i propri referenti e modalità rinnovate del radicamento sociale. Un partito totus politicus. E i risultati si vedono! Le Coop, per quanto è di loro competenza (per il sindacato occorrerebbe un approfondimento ad hoc) si sono mosse in modo esattamente speculare. In nome di una ‘autonomia’ proclamata a ogni piè sospinto stanno inoltrandosi poco a poco (ma anche con qualche salto) in una dimensione nella quale tutti i partiti sono posti ad analoga equidistanza. Come il partito inclina a ignorare i propri referenti sociali, così le coop si comportano rispetto al ‘referente politico’. Certo occorrerebbero nuove modalità di rapporto, non potendosi resuscitare le vecchie. Ma rapporto! Non estraneità. Cioè forme aggiornate di ‘comunanza’, come la gente chiede e nella sua ingenua generosità, ancora immagina che sia. Senza la quale il terreno comune si sfarinerà, e i soggetti in causa resteranno appesi al nulla, ognuno perso nella propria deriva. Disancorati dal vecchio mondo, e incapaci di definire il nuovo. Le baruffe di cui all’inizio sono il sintomo di una nevrosi. Ovvero di un problema irrisolto. Che ha uno stesso centro, anche se ognuno lo guarda dalla sua parte. Se questa futile e ridicola querelle agostana diventerà un pretesto per aprire a menti liberate dall’afa e dalla confusione questo dibattito, allora ne deriverà qualcosa di inaspettatamente utile. Il Pd dovrebbe invitare le coop alla Festa, e le Coop dovrebbero parteciparvi in massa (le rosse, ma anche le bianche). Ma per parlare esattamente di questo. Di fronte alla generosa giuria del ‘popolo della festa’. A seguire: i sindacati (con la Cgil in testa), l’arci, le bocciofile, i bar, le società sportive…. Il popolo che avanza, dall’ingresso di Via Stalingrado, come nel celeberrimo Pellizza da Volpedo.

16 agosto 2010

Il gioco delle tre carte

Richiamo, per chi lo desideri, l'indirizzo delle mie discusse considerazioni pubblicate sul sito della Dire http://www.dire.it/DIRE-EMILIA-ROMAGNA/sondaggio_a.php?c=33265&m=14&l=it

e sviluppo alcuni chiarimenti.

Riassumo la discussione ferragostana sull’apertura al ‘centro’. Non prima di una precisazione.

La stima del contributo dei seguaci di Guazzaloca a un centro-sinistra allargato non aveva come scopo di segare alcunché (come ha maliziosamente scritto il Corriere). Rispondeva a una curiosità personale di tipo prettamente quantitativo. Come spesso accade, fra tutti i commenti non c’è n’è uno che si sia soffermato sull’attendibilità dei numeri e sul loro significato. A parte la fondatezza empirica della rilevazione (sulla quale, come ovvio, metto la mano sul fuoco), è logicamente ragionevole la stima del 3 % ? Io credo di sì. Basta guardare il trend e approfondire qualche valutazione.

Il ’99. Nel ’99 (primo turno) Guazzaloca ebbe 104.571 voti (pari al 41,5 %). I candidati della destra, tutti considerati (cioè Guazzaloca, Ruocco, Pasquini e Poli), toccarono il 48 % circa. Una cifra straordinaria, mai toccata in città. Pure considerando la caduta del tasso di partecipazione al voto. Le indagini di flusso mostrarono che almeno un 5 % di elettori Ds erano transitati alla Tua Bologna. Sul perché di quella débacle della sinistra si è molto discettato: l’inadeguatezza della candidata, le lotte intestine ai Ds, gli errori ripetuti, la divisione a sinistra, i malumori insorti durante il mandato Vitali ecc. Qui vanno aggiunti anche motivi d’ordine generale solitamente trascurati, ma non meno importanti: la caduta di consenso, le perplessità e le delusioni nella base militante ed elettorale dell’Ulivo e dei Ds, nonchè le sorde inimicizie emerse contro il governo D’Alema. Senza lo sgomento generato dalla guerra serbo-kosovara, senza le perplessità generate alla vigilia del voto dalle dichiarazioni di D’Alema per la riforma pensionistica, senza lo spirito di revanche coltivato dai prodiani per la caduta di Prodi, con la creazione dell’Asinello, difficilmente il Comune sarebbe passato di mano, pure considerando tutte le cause di carattere locale. In sintesi Guazzaloca vinse tanto quanto fu lasciato vincere da un insieme di volontà congiuranti (e convergenti: da sinistra, dal centro, dall’interno) ed operanti su più piani (locale e nazionale). La testa di Bologna fu, in certo senso, il prezzo fatto pagare all’ambizione di governo di D’Alema e dei Ds.

Il 2004. Nel 2004 subì una dura sconfitta da parte di Cofferati. Tuttavia il suo rendimento personale e coalizionale non fu trascurabile. Riottenne, nella sostanza, gli stessi voti assoluti del primo turno ’99 ( 103.281, pari al 40,7 %). Nonostante un parziale rientro dei voti a sinistra la destra ebbe una buona tenuta, anche considerando la congiuntura di ciclo politico per essa sfavorevole (il governo Berlusconi era entrato da tempo in uno spesso cono d’ombra). Una parte dei voti che dalla sinistra erano transitati al centro restò agganciata a Guazzaloca (del resto i prodiani non avevano fatto mostra di grande entusiasmo all’arrivo di Cofferati, come dimostrato dal fatto che subito s’impegnarono, alleandosi con la sinistra radicale, in un’aspra guerriglia ai suoi danni). Cofferati vinse grazie soprattutto alla sua capacità di coalizzare ai Ds l’elettorato di sinistra scontento. Scontentezza, però, che riprese presto il sopravvento.

Il 2009. Anno nel quale si consuma il destino di Guazzaloca come leader di un più vasto arco di forze. Correndo da solo aggrega solo 28.785 voti, pari al 12,7 %. Perde clamorosamente le ‘primarie’ con Cazzola. Al secondo turno almeno il 60 % dei suoi sostenitori si sposta sul candidato della destra, pure in assenza di indicazioni di voto da parte di Guazzaloca. A sinistra il candidato Delbono mostra scarso appeal, tanto è vero che rimane al di sotto del voto della coalizione e deve andare al ballottaggio. Se il ‘centro’ civico implode ed è in maggior parte riassorbito dalla destra, la sinistra si sfrangia di nuovo. Le liste ‘alternative’ (guidate da Favia, Pasquino, Monteventi, Tedde e Terra) toccano nel complesso quasi l’8 % dei voti. Una cifra destinata ad ampliarsi con la performances di grillini alle regionali del 2010.

Riassumiamo quindi lo stato dell’arte. Con il 2009 viene meno, e defintivamente, l’egemonia che le forze moderate guidate da Guazzaloca hanno esercitato per almeno due tornate elettorali sulla destra. Il cleavage numerico fra centro-destra e centro-sinistra (considerati come blocchi) è rientrato nel rapporto fisiologico 40/60. Tuttavia, anche a seguito dell’esperienza del commissariamento, è cresciuto l’elettorato ‘opaco’ potenzialmente astensionista. In più i campi politici si sono ulteriormente frammentati. La destra non pare in grado di trovare alternative valide al modello a trazione civico-moderata. Non ha personalità valide da ingaggiare ed è internamente piagata, più ancora che dalla defezione dei finiani, da risse personalistiche. D’altro canto Guazzaloca, e ciò che resta del suo seguito, non ha molte alternative che cercare un dialogo a sinistra, ottenendo, in qualche modo, di tener desto un minimo di attenzione virtuale a quello spazio civico-moderato collassato con il ’99. Il Pd, per contro, si vede insidiato dal sorgere di un nuovo ‘civismo radicale’, ostile ai partiti (anti-cartello), destinato a ridefinire in profondità il vetusto spazio del civismo ‘moderato’. Pericolo forse maggiore (e sicuramente più realistico) di una eventuale ri-saldatura alla destra dell’area ‘terza’, ‘civica’ o ‘moderata’.

In tale contesto la stima del 3 % (fra i 6.000 e i 9.000 voti, a seconda del livello delle astensioni) attribuita a Guazzaloca come ‘valore aggiunto di una alleanza ‘al centro’ è non solo realistica, ma forse ottimistica in eccesso. Sono pochi ? Sono tanti ? Dipende da come si guardano le cose. Hanno tutti in qualche modo le loro ragioni. Sia coloro che mettono in risalto come un acquisto così circoscritto potrebbe essere pagato, sulla ‘sinistra’ irriducibile, con un ulteriore allargamento dell’area ‘civica radicale’ ostile al Pd. Sia coloro che ne apprezzano il significato simbolico e d’investimento politico e che, peraltro, mettono in risalto che Sl e Rc non valgono (assieme) molto di più del 3 %. Del resto io stesso trovo fuori misura la iattanza con cui alcuni esponenti della gauche hanno irriso il fatidico 3 (%).

Per quanto mi riguarda trovo comprensibile la preoccupazione dei dirigenti del Pd. Cercare di allargare il campo delle forze che non si riconoscono nella destra. Evitando l’isolamento e una convergenza di disegni ostili. Del tutto legittimamente Campagnoli ha ancorato a questa prospettiva una sua candidatura. Come altri ad altre visioni (Pasquino ha scritto in proposito cose condivisibili sul Corriere...). E’ però vero che la ricerca di alleanze non può avere successo se consumata all’insegna di un ingaggio nevrotico che tradisce insicurezza, oppure di un’affannosa ricerca di primazia. Come che Bologna, dopo tutto quello che è accaduto, debba per forza fare da lepre a un progetto politico che ha altrove (al centro statale e nel Sud) il suo banco di prova. Così si rischia solo di sbarellare, creando incertezza, e di alzare il prezzo a favore delle forze ‘marginali’. Infatti Guazzaloca ha subito sollevato una pregiudiziale ‘anti-Cevenini’ che si sarebbe dovuto dichiarare irricevibile sin da subito. Per non parlare di questa idea del ‘governo dei migliori’ che è segnale, quantomeno, di una smisurata, quanto paradossale, auto-stima. Chi lidecide i 'migliori' ? Guazzaloca ? E fuori di essi chi stanno: i 'peggiori' ? Il male contro il bene ? I demoni contro gli angeli ? Un delirio manicheista, degno di una setta di zoroastriani. Con tutti i contraccolpi del caso. Non per niente, a sinistra, l’apertura a Guazzaloca ha subito mobilitato le pretese degli altri 3 %.

Il Pd dovrebbe piuttosto attrezzare al meglio la sua proposta, di idee e uomini, guadagnando innanzitutto la fiducia del proprio elettorato (che, sempre stando ai numeri, non è così cedente da giustificare alcun timor panico). Dettando l’agenda senza farsela istruire dal primo che si fa vivo. Anche per ciò che concerne lo spazio civico-radicale il modo migliore di contenerlo non sembra la diplomazia dialogante (per quanto la buona educazione non faccia mai male), quanto la sicurezza dei fondamenti sui quali il Pd intende muoversi.

8 agosto 2010

Dispari inopportunità

Qui davvero sembra che si giochi a 'pari e dispari'. O forse ai dadi o alla morra cinese: tutto ciò che resta (sembra) dell'antica e nobile arte della tattica. L'offerta alla Noè Silvia, la nota pulzella casiniana, delle 'Pari opportunità' regionali, con il nobile intento di allargare al centro il perimetro del centro-sinistra, sembra essere una di quelle mosse che più controverse non si potrebbe. Un'Alea che rischia di lasciare al di qua del Rubicone una parte delle truppe. Come non bastassero quelle già disperse, ammuntinate, contumaci o disertate. Prendi un voto (forse) ne perdi due (sicuri). Resto stupito come la consapevolezza del rischio non metta in guardia abili e navigati condottieri come Errani e Bonacini. Allargare al centro, auscultarne le disponibilità ! E' tutto un vociare concitato e confuso. Passi. Per Guazzaloca e la Noè. Ma non per la soglia delicata e sensibile della 'laicità'. Si deve arrivare fino a monsignor Vecchi ? (l'abile furbacchione di Via Altabella che nel 2004, ricordate ?, voleva vendere il voto disgiunto a favore del Guazza come l'undicesimo comandamento...). A titare troppo la coperta verrà fuori un Pd dell'esterno (come i miei pochi lettori troveranno argomentato nel prossimo numero del Mulino) pronto a raccogliere frutti copiosi. E' l'Italia dei Valori, che qui, tra l'altro, ha Grillini in prima fila, e già in assetto di guerra. Eppure avevo già offerto a iosa i numeri del caso in un lodevole seminario post-elettorale convocato al Passepartout da Salvatore Caronna ! L'Idv si gonfia abbeverandosi assai più al fossato della laicità, che all'orrido dell'anti-berlusconismo. L'elettorato Idv, in Emilia, è composto essenzialmente da elettori Pd (più spesso ex-Ds) stufi delle innumerevoli zeppe piantate, per l'irresolutezza dei dirigenti, dai cattolici 'adulti' e 'pidizzati', ma sempre con un orecchio attento alla Curia, sui temi di rilevanza civile. Mostro di nuovo questa tabella dove si evincono i tratti differenziali degli elettorati vicini/prossimi ai diversi partiti (Campione demoscopico assai tosto: tremila interviste condotte a tre mesi dalle recenti regionali). Si vede il tono confessionale dell'Udc e quello 'laico' dell'Idv. Si capisce perciò come l'appartamentino riservato alla Noè sull'arca della grande alleanza regionale faccia gola all'Udc, ma anche come l'Idv già pregusti l'ennesimo fiero pasto a danno del Pd. Hic sunt leones !

6 agosto 2010

Sul terzo polo. Fra Bologna e il Sud. Cevenini e Guazzaloca

Fra i sacri principi (della sinistra, del bipolarismo ecc.) e la prosaica politologia (elezioni da fare/non fare, alleanze da fare/non fare…) ci dovrebbe stare un qualche scampolo di analisi.


Che cosa rappresenta questo ‘terzo polo’ in fieri ? Al di là dei giochi di sponda ci sono affinità fra ciò che rappresentano (o vogliono rappresentare) Fini, Casini e Rutelli (e i vari Lombardo, Poli Bortone, Miccichè ecc.) ? E quanto spazio possono occupare ? Ci sono aspetti che le poche analisi circolanti tendono a trascurare e che invece, a mio avviso, sono dirimenti. Anticipo subito la conclusione del ragionamento. Il terzo polo neo-centrista, se c’è o ci sarà, è essenzialmente il “partito del sud”. Questo partito è in incubazione da tempo, almeno dalle europee del ’99. Ed è sorto per reazione all’asse a traino leghista assunto dal governo Berlusconi. I primi sintomi si sono evidenziati in Sicilia, con lo sfaldamento del Pdl regionale. L’ondata astensionista che ha colpito il Pdl nel sud alle europee del ’99 è stata la prima manifestazione di una insofferenza ancora latente, ma profonda. Alle regionali essa si è nuovamente manifestata. In Campania (come nel Lazio) con le lotte intestine al Pdl e con un risultato al di sotto delle aspettative. In Puglia con il ‘lasciapassare’ concesso a Vendola (altro che ‘narrazione’) dall’Udc e dalla Poli Bortone (cioè da un pezzo di An renitente alla leva Pdl). Sono tutti segnali che convergono nel mostrare come sia venuto rapidamente frantumandosi l’investimento fiduciario del Sud appannaggio del Pdl berlusconiamo.

A questo proposito è bene ricordare alcuni dati di struttura (che ho esposto a più riprese in diversi saggi su “Il Mulino”):

Le elezioni, dal ’46 ad oggi, sono state sempre decise dal voto del Sud. E’ nel Sud che i diversi governi (e le forze politiche ad essi associate) hanno tratto le risorse strategiche di consenso. Nel ’48 la Dc sfondò al Nord, ma la pagò nel ’53 con la sconfessione al Sud della ‘legge truffa’. Negli ’80 la competizione intra-penta-partito fra Psi e Dc ebbe come teatro la conquista del Sud. Più in generale la Dc ha tenuto il governo repubblicano ‘meridionalizzandosi’. E la Lega, con lo sfaldamento della sub-cultura bianca del triveneto, alla fine, è sorta come reazione a questo stato di cose. Si potrebbe continuare… Ma basta qui richiamare che la regola si è riproposta con la seconda repubblica. Nel ’94 Berlusconi inventa un marchingegno per unire il nord e il sud: la doppia alleanza (Polo delle libertà al Nord: Fi-Lega), polo del buongoverno al sud (Fi-An). Vince ma poi non riesce a governare perché la Lega mal sopporta l’asse privilegiato fra Fi e An. Nel Sud, peraltro, ci sono risorse di voto congelate al centro da Pattisti e Popolari. L’Ulivo vince nel ‘96 non solo per la defezione della Lega al Nord, ma perché conquista parte significativa del Sud: la Campania in primis. Nel 2001 Berlusconi ripristina l’asse con la Lega, ma vince di misura. Il Sud, ad eccezione della Sicilia, non segue, perché l’Ulivo resta forte. L’intera legislatura 2001-2006 è ammorbata dallo scontro fra le ali della coalizione: la Lega da un lato, An e l’Udc dall’altro. Segno che non c’è equilibrio e amalgama fra il Nord e il Sud. Perché se la Lega è il Nord, l’Udc ed An sono il Sud. Il Nord vuole mani libere, il Sud protezione e sostegno statale. Fi sembra riuscire, al Sud, solo in quanto interlocutore dell’economia criminale (e questo spiega il caso Sicilia e la comunanza con Dell’Utri, vero co-fondatore di Fi e Pdl). Ma più in là di questo stenta. Nel 2006 il centro-sinistra formato Unione rivince, seppure di minima misura. A fare la differenza è, ancora il Sud, dove si spostano sull’Unione le tre regioni ‘in bilico’ e ondeggianti: la Sardegna, gli Abruzzi, la Calabria. Mentre tiene, seppure con qualche sintomo di cedimento, la Campania (e il Lazio). Ancora queste tre regioni fanno la differenza nel 2008. Tornano alla destra, assieme alla conquista della Campania, dove si sfalda il ‘sistema di potere’ post-democristiano gestito da Bassolino. La crescita della Lega al Nord è compensata dalla meridionalizzazione del Pdl, grazie all’apporto dei voti di An.

Nel sud gli spostamenti di voto avvengono al seguito delle migrazioni e dei pendolarismi della classe politica. Cioè dei mediatori del ‘voto di scambio’. Così è sempre stato anche se non mancano episodi di ‘insurrezione popolare’, con gli elettori che trainano la classe politica (emblematici sono stati i casi di Palermo con Orlando e di Catania con Bianco, ma anche, seppure in formato ridotto, anche il caso di Vendola ne è un episodio…). Il centro-sinistra ha ‘tenuto’ il Sud grazie all’attrazione di pezzi rilevanti di classe politica e dei loro seguiti personali. Per inciso, le scelte di Veltroni (con la defenestrazione di De Mita e il congelamento in lazzaretto di Bassolino) hanno favorito il distacco. La lotta con D’Alema – uomo politico, come egli stesso professa, ri-naturalizzatosi al sud – è un momento di questa frattura.

Gli eventi attuali, con lo strappo di Fini, mostrano che si è riaperta la questione del Sud. Il terzo polo è il tentativo di offrire una autonoma aggregazione ‘al centro’ di classi politiche sino ad ora oscillanti fra la destra e la sinistra. L’elettorato e la società meridionale stanno lacerando il patto che aveva dato vita al Pdl. Non si sentono più rappresentati/garantiti. Potrebbero riagganciarsi a una alleanza con la destra solo a patto di un forte ridimensionamento del potere pivotale della Lega. Ma questo sembra assai difficile. Non a caso Fini, Casini e Rutelli hanno un punto programmatico in comune. Più ancora che le questioni della legalità costituzionale è l’avversione al federalismo in salsa lego-berlusconiana ad unirli.

Qui si pone il che fare del Pd. Se vuole vincere le elezioni e tornare al governo deve riprendere il sud, ma per come si sono messe le cose non potrà farlo che a prezzo di una alleanza con il terzo polo. Checchè ne pensino i ‘grandi, e puri, bipolaristi’ nostrani, D’Alema ha ragione. Non c’è alternativa. Una riedizione dell’autosufficienza veltroniana del 2008 non è proponibile. Ancor meno di una riedizione dell’Unione. Ciò che stupisce nell’atteggiamento di Bersani (pur concedendogli che i dilemmi sono diversi e le soluzioni molto aleatorie) è l’ondivago spostarsi fra la Lega e il terzo polo. Non sono sommabili, neppure in un governo minimale di transizione.

Segnaliamo un ulteriore paradosso. I leader del terzo polo, almeno due Fini e Casini, vengono da Bologna. Hanno i natali al centro-nord e il seguito al Sud. Qualcosa del genere accade anche a Bersani, che come si sa, è stato plebiscitato, nelle primarie, al Sud, non nella terra natale (l’Emilia). Strani paradossi geo-anagrafici.

Già che ci siamo un appunto su Bologna e l’evocata politica di larghe intese civiche. La partita politica, come richiamato, si gioca da Roma in giù. Il centro starà come è, cosiccome il Nord. E’ al sud che passa il cambiamento. Perciò Bologna (e l’Emilia) questa volta non potrà anticipare alcunché. Campagnoli fa bene a richiamare la necessità dell’analisi politica. Ma l’analisi è questa. Inutile ingrandire il discorso. L’allargamento del centro-sinistra è, al massimo, un problema locale. Non anticipa nessuna linea nazionale. A Bologna, come nel nord, il terzo polo si tirerà dietro ben poca gente, mentre al sud potrebbe catalizzare ceto politico e seguiti elettorali. Il problema elettorale bolognese è essenzialmente che fare rispetto a Guazzaloca e quel tanto di consenso che si tira dietro per nostalgia naturale. La lista Civica non esiste più. Una parte ha seguito Corticelli a Destra. L’Udc è di nuovo sé stessa. Alle comunali Guazzaloca prese il 12 %. Adesso non credo (sondaggi alla mano) vada sopra il 5 %. Un terzo polo autonomo non andrebbe oltre l’8 %. La stessa cifra totalizzata dai gauchismi irriducibili alle comunali: di nuovo conio – Favia – e di impianto più datato – come nei Monteventi, Pasquino, Tedde, Terra ecc. Compito del Pd è riuscire a grattare qualcosa a sinistra e qualcosa al centro. Cosa che può fare meglio se sta sulla barra, senza barellare. Restano molti degli amici del tressette di primo pelo. Credo che non abbiamo alternative ad aggregarsi al carro e il loro potere contrattuale è nella misura di pertinenza. Vediamo come si mette. Per adesso concludo ancora con una osservazione. Cevenini sembra il più consapevole della fase e si muove con un garbo tattico tale che pochi professionisti politici ci arrivano. Distinti saluti.

5 agosto 2010

Sul fenomeno Cevenini. Il sondaagio integrale de L'Espresso

Dopo lunga e dolorosa assenza riprendo a scrivere sul sito. Tanto più che troppe se ne sentono con ben poco fondamento. Perciò torno a dire la mia. Qui su quarantena, reparto lungodegenti.


Dopo il dialogo Donini-Errani e i molteplici commenti, ripropongo le 'verità oggettive' del sondaggio che ho condotto per l'Espresso del 6 Luglio. Qui in formato integrale ed esaustivo. Siccome mi è giunta voce che c'è chi non crede al sondaggio, avverto che so' valutare con una certa freddezza quando 'ci prendo'. Questo è uno di quei casi. Il sondaggio tiene, è ben calibrato e pesato, ed è internamente coerente. Inoltre è stato condotto senza schemi precostituiti. Offro la lettura senza aggiungere molto a ciò che ho scritto ne "La bella addormentata". Aggiungo solo qualche precisazione. Su Cevenini, premettendo che non sono 'ceveniniano', ma un attento osservatore del Cevenini.

1. Il successo di Cevenini. E' reale. Tutt'altro che casuale. Mi sono guardato le risposte a un sondaggio che avevo condotto con metodo analogo (delle libere indicazioni dei candidati) nel 2002, a metà del mandato Guzzaloca. Allora circolava a sinistra la domanda di Briscolone. Ebbene Bersani, il più citato, risultava non superare il 5 % ! Dunque il quasi 8 di Cevenini, pesa eccome ! E' da notare che Cevenini è ben penetrato nell'elettorato popolare tradizionale del Pd, ma anche - cosa ancor più importante - nell'elettorato 'opaco' cioè lontano dalla politica. Un elettorato che si muove secondo la nota 'spirale del silenzio', ovvero al seguito delle immagini dominanti. Cevenini è riuscito ad arrivare laddove, di norma, solo i media più potenti riescono a penetrare. Questo grazie al suo modo 'face to face'. Il capitale che ha accumulato con grande dedizione in questi quindici anni.

2. L'ingaggio di Cevenini. E' obbligato, anche se si muove con sagace cautela. Il gioco "fare il sindaco" è entrato nella realtà irreversibile. Si ritirasse dovrebbe vedersela con i suoi sostenitori, armati di forcone. Perchè Cevenini non è solo un abile uomo politico capace di accumulare consensi e simpatia. E' anche, a sua volta, un prodotto dell'immaginazione popolare. Uscito dalle cucine delle feste de l'Unità, nei bar, nelle polisportive e nei club dei tifosi ascrivibili al tifo old style (di sinistra). Un popolo che ha sempre votato ciò che gli veniva indicato. Trangugiando amari bocconi. E che adesso è stanco di fare l'intendenza. Vuole decidere. Ha il suo candidato (Cevenini), e non ne voterà altri. Oggi il potere di ricatto, o meglio di dispetto, è transitato dal 'centro', dove prima alberava, nelle mani di questo popolo. Lo 'zoccolo duro' non segue più. Vuole essere seguito. A questo punto delle cose neutralizzare Cevenini è impossibile.

3. Lo schema di gioco. E' ormai chiaro. Da un lato la politica da 'grande manovra' (virgolettata): incontri al centro, governi dei 'migliori', convergenze, adunate di ceto politico e societario, evocazioni e retoriche pan-progettuali a iosa. I cosiddetti poteri 'forti' (meglio 'molli'). Dall'altro Cevnini il popular. Qui non voglio addentrare l'analisi, nè prender parte. Noto solo che questo schema, tanto più quanto si palesa in diversi opinion leader, come Campagnoli, Guazzaloca e altri autorevoli commentatori, favorisce Cevenini. In una situzione, come rileva il sondaggio, di 'sprofondamento' della politica l'accredito per il Cev è destinato a crescere. Da un lato la manovra, vieppiù barocca e complicata, dall'altro la semplicità che va diretta allo scopo. La mediazione contro l'autenticità. Il pesante contro il leggero. Il mediato contro l'immediato. La tresca contro la trasparenza. Perchè Cevenini è un 'militante' di partito fedele, ma non è implicato in nessuna lotta intestina, cordata di potere o consorteria. E' basico in un mondo complicato al vertice.

Perciò tutto congiura, oggi, appannaggio di Cevenini. Le dinamiche politiche sistemiche e congiunturali, nonchè quelle psicologiche. A vedere i primi duelli sulle pagine locali, inoltre, va emergendo una ulterore quaificazione. Forse, fra tutti, Cevenini è il vero professional.

12 marzo 2010

Carlomagno Uber Alles

Glielo devo. In "La città trans-comunista" ne avevo tratteggiato un succinto ritratto. Il 'bonzo mancato', che qui ripropongo.


"C’è il caso di X, il bonzo mancato, che vive la politica come pallino psico-patologico. E’ pervaso da un’ossessione maniacale a intrufolarsi nei gruppi di chi reputa sia importante, millantando conoscenze e relazioni affluenti. Riappare carsicamente in ogni occasione topica (come le elezioni, le direzioni, i congressi, sia a Bologna che a Roma, nonché alle primarie del ‘99, per le quali riesce addirittura a raccogliere un certo numero di firme, che poi gli vengono crudelmente invalidate). Tenta in ogni modo di insinuarsi nelle cerchie riservate, dove ha l’ardire di prendere la parola e dalle quali viene immancabilmente allontanato a forza, sollevato per le ascelle mentre sgambetta. Durante la fase concitata del dopo-voto, a urne calde, penetra nel comitato elettorale di Cofferati in via Mentana. Una volta individuato viene messo alla porta da due energumeni. Passandomi accanto mi riconosce. Esultando come chi ha trovato un amico provvidenziale che può salvarlo dalla sorte crudele che lo attende (la porta d’uscita) mi mette disperatamente le braccia al collo, come ancorandosi a un ramo o a uno scoglio, e quasi mi trascina al suolo. Ancora adesso mi chiedo: perché caro picchiatello a te no e ad altri sì ?".

Era lui, Carlomagno, il signor X. Anche questa volta lo hanno sollevato a forza, ma sotto gli occhi delle telecamere, in mondovisione. Presentatosi come free lance alla conferenza stampa di Berlusconi lo ha fatto imbufalire. In più ha rivelato al mondo come più plasticamente non si potrebbe l'intima natura (servile e squadristica) del ministro La Russa. Nelle riprese si vede il piccolo Carlomagno, calvo, con occhiali, o forse no, le lenti a contatto, come si evince dalle fosse inscurite, cappotto e sciarpa come ci vestiva la mamma, che si leva sugli astanti e rivolge al Caimano le domande che nessuno osa. Come Lenin sulla piazza rossa. . Poi lo si vede seduto con la dignità di un condannato a morte nelle mani del nemico. Come Gramsci davanti al tribunale speciale. Infine che scompare sotto un diluvio di strattoni e minacce. Come Gandhi. Piccolo uomo. Grande coraggio. Carlomagno sfida i morsi dell'animale con la forza della verità. Come Tartaglia è un semplice, ma invece di avere un duomo di Milano fra le mani, ha sulla bocca il fiore che atterrisce i pavidi, gli stolti, i criminali. Perciò il ritratto che avevo predisposto, per quanto intimamente simpatetico, era fuorviante. Non avevo colto che in lui non c'era solo il 'pallino' maniacale della politica, bensì un coraggio della verità/testimonianza assolutamente fuori del comune. Celato, necessariamente, nella sua natura semplice e bizzarra. A pensarci bene già presentandosi con le sue cinquecento firme alle porte della federazione per le primarie del '99, aveva mostrato una sorprendente capacità di comprensione del 'ciclo politico'. Un precursore. Adesso il suo coraggio vale, in termini di efficacia, più di una qualche oceanica manifestazione. E' stato capace di mostrare il Re nudo con la sola forza della parola. Perciò gli chiedo perdono se quella volta in Via Mentana non l'ho strappato dalle mani dei buttafuori. Fra tutti era quello che aveva più diritto a stare lì dentro. E gli chiedo anche scusa per le volte che l'ho incontrato per strada (e sinanche davanti a Botteghe oscure) e ho cercato di svicolare dai suoi racconti follemente appassionati. Bizzarri, surreali, megalomenici. Carlomagno. Calvo e gentile. Dall'alto del suo metro e sessanta scarso. Chi di noi sarebbe potuto sopravvivere a un nome così ? Oggi m'inchino a Carlomagno, che arriva laddove nessuno di noi avrebbe avuto l'ardire di puntare. Carlomagno Uber alles.

18 febbraio 2010

Sinistra civica ?

Sinistra civica ? Che cos’è o possa diventare nessun lo sa, men che meno chi ne parla. Prosaicamente potrebbe incarnarsi in più cose: l’ennesimo cambio di nome del Pd (ad esempio con la riproposizione di un domicilio civico-locale, come fu in, età classica, quello delle Due Torri), l’ennesima proposta di una lista alleata da (supposte) posizioni di forza al Pd, l’ennesima insorgenza rivoluzionaria di ‘società civile’ contro partiti desolatamente incapaci di produrre sintesi politica. Etc. etc….. Deja vu. Soluzioni anche troppo sempliciste. Tali da far torto anche all’intelligenza di chi solleva il problema. Problema, in ogni caso, impellente: come produrre un rinnovamento di classe politica e di progetto. Un mutamento radicale, innalzandosi, come per contrappasso, dalla causale mediocrità della vicenda Delbono. Davvero segnaletico di una discontinuità, non meramente incrementale. A parte Zani, che ha enunciato per primo le due misteriose ‘parole chiave’ (‘sinistra’ e ‘civica’, senza peraltro offrire indizi più che evocativi), è stato Cacciari, con la fulminante capacità di sintesi che gli è propria, a richiamare il significato di una esperienza suscettiva di dare una forma un poco più concreta alla questione. Quella della lista del ‘Ponte’ lanciata nelle amministrative di Venezia del 1990. Una traccia che conviene seguire nel dettaglio, alla ricerca di qualche insegnamento che possa rivelarsi utile. A quell’epoca, del resto, chi scrive collaborava assiduamente con il Gramsci veneto (come membro del comitato scientifico), il quale aveva in Umberto Curi un alacre organizzatore e in Massimo Cacciari una guida più che intellettuale, ovvero carismatica. Attorno all’istituto veneziano gravitavano numerose personalità: docenti dello Iuav, come Tafuri e Dal Co, e dell’università di Padova (fra i quali Duso, Brandalise, lo stesso Curi), ex-dirigenti di rilievo del Pci veneziano, come Chinello, economisti (come Rullani), ricercatori dell’Ires Cgil (come Anastasia), e numerosi giovani intellettuali (ricordo Luca Romano da Vicenza e Renzo Guolo, da Treviso, ora acuto specialista di islamismo sulle pagine di Repubblica). Un parterre di esperienze e specialismi di notevole spessore, ma anche di individui politicamente impegnati (Cacciari stesso era reduce da due legislature come deputato Pci). Tutti nel fiore dell’età. Orbene fu proprio in quell’Istituto Gramsci che la lista del Ponte fu concepita. La lista non fu frutto di improvvisazione e di una mera ‘libido candidandi’, bensì di un lavoro preparatorio, politico e programmatrico, estremamente serio e durato almeno tre anni. Un lavoro collocato dentro la crisi finale del Pci ed il travaglio della nascita del Pds. Alla ricerca di soluzioni nuove, teoriche e, insieme, di radicamento politico. In quella proposta lo spazio civico è individuato non come un ridotto locale, un rifugio pragmatico e provincialistico alla crisi della politica. Ma come il laboratorio di soluzioni politiche più generali/esemplari. E’ all’interno di questo lavoro di scavo e preparazione programmatica, ad esempio, che viene precisato per la prima volta quel concetto di ‘Idea della città’, che farà da battistrada a numerose altre esperienze. In effetti quell’episodio fu il primo segnale di un ciclo politico che avrebbe poi caratterizzato l’epopea dei sindaci degli anni ’90. Cacciari , che era il capolista candidato a Sindaco di quella lista perse le elezioni (il Comune finì amministrato da un pre-posto tardo democristiano, con il sostegno del Psi di De Michelis), ma ebbe modo di rifarsi rapidamente nella sfida del ’93, vincendo il duello con il candidato leghista (tal Mariconda, che fu imbrigliato e quasi plagiato da Cacciari), diventando alfine Sindaco di Venezia. Va ricordato che in quello stesso anno salgono al soglio municipale Bassolino (a Napoli), Orlando (a Palermo), Castellani (a Torino), Rutelli (a Roma), Sansa (a Genova). Tutte le grandi città metropolitane, ad eccezione di Milano, vengono conquistate dalla sinistra di nuovo conio civico e si pongono le premesse che porteranno alla creazione dell’Ulivo ed alla vittoria nelle politiche del ’96. In sintesi nel ’90 nella Serenissima viene gettato il primo seme di un’intera stagione politica. L’esperienza veneziana, inoltre, verrà replicata con successo in diverse città del ‘veneto bianco’ dimostrando che era possibile infrangerne il muro (anche Fistarol, sindaco a sorpresa di Belluno, veniva dall’Istituto Gramsci).


Qual’era l’essenza dell’operazione il Ponte ? Anche favorito dal fatto di avere da poco rinverdito i ricordi col Cacciari medesimo, direi questo: la funzione-guida, di leadership politica, esercitata in via diretta da un gruppo di intellettuali politicamente orientati. Nella quale sono coinvolti, a seguire, il partito e le associazioni storiche del movimento operaio, con le loro organizzazioni territoriali. Non si tratta nè di arcaici intellettuali ‘organici’ (il Pci è allo stato terminale e il mito del Partito Principe è ormai sepolto da tempo), né di ‘specialisti’ aggregati alla politica, né di candidati estemporanei di ‘società civile’. Bensì di un ‘nucleo di progetto’ forgiatosi nella riflessione politica degli ’80, dentro il declino del Pci e dentro i mutamenti della società nazionale. E qui va fatta una precisazione sulla situazione veneziana. Partito e sindacato lagunari, non sono deboli (Venezia è ancora una città con una forte presenza operaia legata alla grande industria, non ha tradizioni ‘bianche’, come gli altri capoluoghi veneti, Padova, Verona, Vicenza ecc.). Tuttavia non sono in grado di esercitare una egemonia. A lungo sono stati esclusi dal governo cittadino, il più delle volte nelle mani della Dc e dei suoi molteplici alleati. Dunque, da un lato, partito ‘non forte’, anche se non ‘debole’. Dall’altro lato una concentrazione, rara nella sua potenza, di ‘materia grigia’ raccolta nell’istituto Gramsci. In tali circostanze il gruppo intellettuale del Gramsci s’insinua in un ‘quasi vuoto’, e prende la guida del processo politico. Non ponendosi in uno sterile antagonismo da ‘società civile’ riverginata con l’anti politica. Bensì esercitando l’egemonia sul mondo della sinistra. Con la proposta politica e il dinamismo della sua potenziale classe dirigente.

Rispetto ad allora molta acqua, come ovvio, è passata sotto ai ‘ponti’. Cacciari sta per chiudere il suo terzo mandato da Sindaco, dopo traversie, spaccature e ricomposizioni. Mentre l’ombra mignon di Brunetta incombe sulla laguna. Rutelli e Bassolino si sa dove son finiti. E dopo di loro Veltroni. La stagione di Orlando è durata poco. Solo Chiamparino è riuscito a far fruttificare al meglio l’eredità di Castellani. Ma anch’egli si avvia all’addio. Sansa a Genova ballò una sola estate, e se il subentrante Pericu ha saputo garantire un decennio di alto consenso, il mandato Vincenzi ha preso il via in modo tribolato. Molti altri sindaci, per quanto ambissero a seguire le orme dei Sindaci-pionieri, hanno lasciato eredità contorte e talvolta fallimentari. Vitali e poi Cofferati a Bologna. Dominici a Firenze. E se è vero che qua e là si propongono eccezioni, come Zanonato a Padova e la recente conquista di Vicenza, nonché la riconferma dell’eccezione trentina, medie città come Brescia sono tornate alla destra dopo gli illuminati mandati di Martinazzoli e Corsini. A Bologna la disgrazia Delbono è piombata sulla città come una bomba enne, richiamando in vita i fantasmi del ’99. Insomma la stagione della ‘politica delle città’ è passata. Il quadro politico, anche aggravato dal restringersi dei margini di autonomia per la crisi economica, è compromesso in più punti.

Eppure, dopo la quasi falsa ripartrenza di molte primarie locali, ritrovare un nuovo slancio nelle ‘periferie’, specie quelle urbane’, è una condizione assolutamente necessaria per il progetto nazionale del Pd (e la sinistra in genere). Ora, in questo quadro, io credo che l’esperienza del Ponte abbia un senso la cui sostanza è ancora attuale. La formulerei così: ripartire tramite robuste aggregazioni intellettuali nelle città, trasferendo su di esse funzioni non solo di analisi/progetto, ma di leadership.

Guardando a casa nostra, ci sono differenze rispetto al caso veneziano. Il partito era (e per certi aspetti è rimasto) forte. L’istituto Gramsci locale ha più spesso traccheggiato come un organo collaterale, rinunciando a entrare in modo diretto sulla politica. Del resto Bologna è una città dove è rilevante lo spessore ‘accademico’, con tutti i suoi difetti, delle cerchie intellettuali. Il Mulino/Cattaneo, l’altra grande aggregazione di rilievo nazionale, ha già dato. In più presenta una notevole frammentazione interna. Difficile immaginare una funzione di traino. E cionostante il partito si è indebolito, mentre larga parte del mondo economico-associativo ha subito una forte corporativizzazione (tanto da rendere patetica la sua attuale pretesa di surrogare la politica in quanto ‘società civile’). Si è creata una situazione in qualche modo analoga a quella veneziana di allora. Perciò ci sono le condizioni perché possa riproporsi un esperimento di leadership a matrice intellettuale. Il Gramsci si è dotato da qualche tempo di una presidenza dinamica, e se è vero che è arduo vedere in Carlo Galli, oggi, una replica del Cacciari di allora, è anche vero che di lì potrebbe partire, a spron battuto, un lavoro di progetto, coinvolgimento e aggregazione intellettuale sulla scala cittadina dal quale fare sfociare l’atteso cambiamento. Se la politica di partito è in crisi, se il sistema delle categorie langue nel declino del consociativismo, non è in una generica ‘società civile’ che occorre cercare le soluzioni. Bensì in una presa di responsabilità del lavoro intellettuale. Tornare a Lenin, e dal nucleo élitista del suo pensiero. Ripartire dalla testa. Da un’avanguardia illuminata. E poi cercare qualsivoglia soluzione utile allo scopo.

16 febbraio 2010

I ‘cattolici’ e il Pd. Con Uffa finale.

Si sente dire, qua e là, che questa volta, alle regionali, molti voteranno la lista ma non i nomi. Sembra che l’idea sia particolarmente gettonata da una parte dei cd. ‘cattolici’ del Pd. Una proposta inquietante, visto da dove viene. Fosse un ex vetero-comunista a parlare non ci sarebbe di che preoccuparsi. Io, ad esempio, e sino ad età avanzata, non avevo l’abitudine di dare voti di preferenza. Trovavo il costume troppo simil ‘democristiano’. Mentre votare la lista, cioè il partito e basta, era un nobile atto morale. Si vota l’idea, forse la politica. Ciò che è e che sta. Non la persona, comunque, che è transeunte, limitata, per definizione sostituibile. Qui, invece, sembrano in campo intenti diversi. Non un sano/malato rifiuto del ‘personalismo’, bensì delle ‘persone’ albergate nella lista. Una minaccia. Un ricatto morale ventilato. Che prelude, come estrema ratio, a un addio al partito. In effetti c’è un transito in atto verso l’Udc. Nelle politiche del 2008, come noto, diversi voti sono transitati dal Pd-Ulivo all’Udc, a sostituzione di un flusso di analoga rilevanza orientato dall’Udc al Pdl. Chiari segnali di un netto spostamento a destra di parte del voto ‘cattolico’. E’ per inseguire questi voti che Rutelli ha fatto i bagagli, presto seguito da un diffuso corteo di ceto politico. Dunque, dopo il voto, un movimento di classe politica. I ‘cattolici’ tornano al centro. Cioè lasciano la sinistra. Magari per ri-allearsi con essa, ma da posizioni di forza. Imponendo la ‘rendita’ del centro. Con la conseguenza per il Pd di un dilemma: allearsi con questo ‘centro’ (ancora largamente virtuale) impedendone la fagocitazione a destra, oppure combatterlo come un segno di inquinamento ? Che tradotto in voti significa anche: se ne perdono di più facendo buono o cattivo viso al gioco ? Il Pd ha scelto la prima alternativa. Ed è probabile non ne avesse altre. Gli esiti li vedremo dopo le regionali. E tuttavia il tema dei ‘cattolici’ (‘adulti’, come si è definito il più importante, cioè Romano Prodi) ha uno spessore ben più vasto di quanto lascia intravedere il movimento dei transfughi. Il Pd voleva significare un doppio movimento: l’incontro dei ‘cattolici democratici’ con la sinistra, e un nuovo modello di integrazione, nel quale di diverse appartenenze si sarebbero dissolte nella nuova identità. C’è un termine del lessico hegeliano che connota con precisione questo processo: Aufhebung. Letteralmente: “togliere per sollevare”. Nel procedimento dialettico il terzo momento, lo stadio speculativo o positivo-razionale, ovvero la conciliazione con l'universale astratto (Enc.C, § 79). L’output finale doveva essere l’autosuperamento delle identità costituenti in una identità capace di ricomprenderle a un livello più alto. Allora sarebbero nati i ‘democratici’, senza più aggettivi, reclusi, al più, ove persistenti, nella sfera interiore della biografia esistenziale. Cioè ‘secolarizzati’. Tradotta in sostanze l’alchimia democratica era il crogiuolo dove avrebbero dovuto fondersi i nobili metalli delle tradizioni costituenti: lo spirito di disciplina, l’organizzazione, le istanze collettive di emancipazione, i profili morali del socialismo, cioè quanto sedimentato dall’esperienza del comunismo italiano (ed emiliano) e i significati teorici (trascendenti) e pratici del ‘personalismo comunitario’ di matrice cristiana, con la ricchezza dei suoi mondi vitali di ‘privato sociale’. Nella cornice rinnovata del patto costituzionale, con il suo liberalismo socialmente orientato. Un welfare con l’anima, l’organizzazione più l’autonomia comunitaria, la disciplina e la competizione democratica, la regolazione politica più la partecipazione, un mercato ‘sociale’, senza corporazioni ma neppure atomizzato. Un partito di pluralismo politico-programmatico, non una congerie settaria di tribù tardo-ideologiche, ovvero post-ideologico. Questa Aufhebung, hainoi, è ben lontana dal venire. Per ragioni complesse e molteplici sino ad ora hanno imperversato gli ‘effetti perversi’ e i ‘riflessi condizionati’. Una tradizione persistendo come vuoto burocratismo, autoterefernza, gelida composizione di equilibri e poteri, l’altra riproponendosi come smaccato ed anarchico individualismo, piccolo notabilato e adunanza corporativa. Accade così di sentire parlare del mancato rispetto, nelle liste, di ‘sensibilità’ plurali. Come che la composizione di una lista e il suo dosaggio arlecchinesco (in verità una ‘lisca’ di pesce, persino decomposto) potesse surrogare l’Aufhebung che non c’è. Si dice Ds e vien fuori ciò che resta delle solidarietà di un apparato un tempo potente e rispettato. Si dice ‘cattolici’ e vengono fuori Tizio, Caio e Sempronio. Tutti con il ditino alzato a rivendicare la patente ‘autentica’ del vero cattolico. Già, perché quando ce n’è uno, vattelapesca se rappresenta i ‘cattolici’. Questo del resto era la Margherita: una assemblea permanente e rissosa di notabili e aspiranti tali, perennemente convocata nella redazione di liste. Un piede nel ‘privato sociale’, la memoria nella gioventù parrocchiale, l’altro piede nella politica. Due gambe divaricate. Con i coglioni (purtroppo i nostri) girati.

Alla fine la lista (regionale) resta quella che è. Se è poco attraente, lo sarebbe stata ancor meno ove avesse adito a questa richiesta di ‘pluralizzazione’ dei vari noumeni (e fenomeni) che si aggirano sulla scena. Perciò resto sul piano accademico. Fosse stato per me, ovvero un’ipotesi megalomenica di incarnazione dell’universale astratto, la lista l’avrei compilata così:

1. suddivisione del territorio federale in tre ambiti (tra l’altro, scontata l’elezione del candidato imolese, il più perfetto dei ‘masi chiusi’, tre sono in previsione gli eleggibili): pianura, città, collina-montagna;

2. avvio di procedure di partecipazione territorializzate (primarie, consultazioni, assemblee di iscritti). Ampia libertà nei metodi, ma con l’unico scopo di una sintesi efficace sulla scala territoriale;

3. formazione di una testa di lista composta da tre ‘leader territoriali’, ciascuno per il territorio di pertinenza; rappresentativi per la forza dei legami trattenuti con il territorio e per l’eventuale expertise agibile sulla scala regionale;

4. impegno del partito a sostenere la testa di lista, lasciando libera circolazione al personale di complemento (tratto da correnti, sensibilità, mondi sociali, se esistenti, e quant’altro…);

5. vincolo tassativo ai candidati di sottoscrivere, ove eletti, quota parte significativa dei loro emolumenti al partito.

Modello semplice, come si vede, forse illuministico e dilettantesco, ma con una duplice intenzione:

a. Recuperare in via di fatto la logica uninominale andata tragicamente perduta con il porcellum, ma colposamente subita dal Pd; alla ricerca del ‘valore aggiunto’ territoriale e della responsabilizzazione degli eletti davanti all’universalità di un elettorato non astrattamente sublimato nel partito, ma geograficamente determinato;

b. Dare un segnale di contro-tendenza almeno in direzione del lato più prosaico, ma visibile come mai in epoca di gravi ristrettezze economiche, della cd. ‘casta’. Son rimasto un marxista, cioè fra tante anime nobili, un gretto materialista. Alla fine l’essere sociale determina i comportamenti dell’uomo. Per salire in vetta all’ideale bisogna essere più leggeri.

Per il resto chi se ne vuole andare, vada dove lo porta il culo. La pianta potata, è noto, cresce meglio. E’ vero che la regola piaceva assai al vecchio Dzugasvili. Ma c’è una differenza con quel losco passato. Il georgiano imbracciava di suo le cesoie. Amputava (soprattutto le parti sane). Qui la potatura è una libera scelta. Auto-potatura. Che è già un passo che la provvidenza, con la sua hegeliana razionalità, offre verso l’Auto-superamento. Aufbeschneiden (che non so neanche se in tedesco esiste) in attesa dell’Aufheben. Con Aufatmen finale (letteralmente: trarre un sospiro di sollievo). Auffa !

15 febbraio 2010

Il piccolo 5 Piovoso di Bolokistan

Ci sono situazioni che vanno immortalate all’istante t zero, prima che il tempo, cioè l’incalzare all’infinito delle congiunture, tutto levighi. Ci sono alcuni appunti che vanno fissati. Alla partenza. E all’arrivo.

Il primo è quanto accade nella notte del 4 Febbraio (‘Piovoso’, nel calendario giacobino), intorno alle 23. Un messaggino Sms a firma di Giuseppe Cremonesi arriva agli assessori della giunta Delbono: “Carissimo/a domani mattina 5 Febbraio ore 10,30 è convocata una giunta straordinaria. Odg. Comunicazioni del Sindaco. Grazie, scusa l’ora. Buona notte”. Una ribollire di voci che si sono accavallate durante la giornata lasciano presagire con una certa chiarezza cosa possa sortire dallo scolapasta: il ritiro delle dimissioni del Sindaco. Dimissioni misteriosamente date, subito appresso a ripetute dichiarazioni di strenua resistenza (anche con un ‘rinvio a giudizio’) e che adesso s’intederebbero ritirare. Chi sospinge l’ipotesi – una ipotesi in sé non del tutto peregrina – non sono tuttavia le forze politiche della coalizione. Le quali, al caso, avrebbero anche potuto avvalersi della carta come un Jolly estremo da lanciare sul tavolo. E che in tal modo gli viene invece sottratto. Bensì una cordata di interessi economici e societari, nonché ‘morali’, dalla via che è evidente un qualche coinvolgimento della stessa Curia, con in testa il Collegio Costruttori. Il movente appare non del tutto prosaico: evitare alla città la paralisi, che va esattamente profilandosi proprio in quelle ore, di un lungo commissariamento. Però le ‘dita sulla città’, si vedono, eccome, dietro la ‘matta’. Una iniziativa dunque extra-politica, che passa sulla testa dei soggetti politici, e di cui è facile immaginare l’esito: un Sindaco ‘pret à porter’. Con i partiti a rimorchio e con un pesante ‘cappello in testa’: il concerto di una parte almeno degli interessi locali che ‘contano’. E’ una sorta di piccolo ‘colpo di municipio’. Viene tenuto in vita un ordinamento civico del tutto svuotato e privo di legittimazione nel mentre si ridefiniscono in via di fatto contenuti e soggetti attuatori. ‘Buona notte’, infatti. La città entra davvero nel buio. Da un lato l’iniziativa della destra che tende a stremarla/umiliarla. Dall’altro un insieme di interessi societari che mira a insinuarsi nel vuoto politico. Prendendo la mano nottetempo. Sostituendosi a un Pd paralizzato dagli eventi e sotto choc. Come è finita si sa: l’iniziativa di Delbono & company è presto rintuzzata dalla minaccia di un suo diretto ri-dimissionamento da parte del gruppo consiliare. E tuttavia il fatto, questo piccolo 5 piovoso, resta notevole. Foriero di sviluppi. Ancora adesso, in questo strenuo agitarsi della stimata Camera di Commercio, il concerto supremo delle ‘categorie’, e in questa nella pelosa malleveria di Casini presso il governo (e finanche Berlusconi in persona), non è difficile intravedere un filo rosso dove molte cose si legano. E qui bisogna guardare un attimo indietro.

Il Bolokistan non è nato oggi. E’ un pezzo di società materiale che è vissuto all’ombra dei partiti e che si è poi progressivamente autonomizzato. Associazioni rappresentative di ceti medi, commercianti, artigiani, libere professioni, di imprese, cooperative, fondazioni bancarie, ecc. Tutto un milieu. Società civile ‘concreta’, in grado di dettare tempi e modalità della governance. Con una intrinseca attitudine alla redistribuzione e con un interesse tutto ‘barocco’ alla preservazione dello status quo e degli interessi di ceto. Nella lontana crisi del Pds, nel ’99, questo concerto aveva subito compreso la portata del ‘progetto’ civico guazzalochiano. Un uomo, non per caso, delle ‘corporazioni’, uscito dal suo stesso seno, il cui scopo era esattamente quello di ‘scollare’ il sistema degli interessi dall’ingombrante primato della sinistra. Il pragmatismo in luogo dell’ideologia, il minimalismo faber in luogo dei sogni. La colla degli interessi come vero mastice della coesione sociale. Sistema appiccicoso, gelatinoso, si direbbe. Cui subordinare tutto il resto della città. Ridotto a puro orpello: la partecipazione popolare, la politica, i partiti. Questo concerto aveva patito la poco gloriosa dipartita di Guazzaloca nel Pratile del 2004. Aveva storto il naso, e la bocca, di fronte a Cofferati. L’ingombrante giacobino venuto da fuori. Il quale Cofferati gli aveva reso la pariglia, mettendone gli interpreti in un angolo e infliggendo loro ogni sorta di fustigazione. Senza tuttavia riuscire, per ragioni che un giorno, forse, dovrebbe lui stesso spiegarci, a costruire una egemonia alternativa alla degenerazione del ‘modello consociativo’. Tanto è vero che Egli non riesce a impedire il crearsi di una commistione tonale fra ‘interessi forti’ e società ‘debole’ che nutre aspettative di partecipazione. Non passa giorno che uno dei membri di questi due mondi, a turno, non tuoni sulle pagine della stampa cittadina (e di Repubblica in particolare, il cui Direttore adesso predica così bene, che presto ne diviene il megafono quasi esclusivo). La coesione sociale vilipesa, il progetto di città andato al mare, la condivisione violata, come la coalizione politica, i bravi consiglieri inascoltati, gli interessi sdegnati, come le aspettative dell’ultimo dei comitati, e finanche i buoni sentimenti. In effetti qui sta la colpa di Cofferati: non nell’aver colpito il bersaglio giusto, ma di non essere stato in grado di costruire un’alternativa.

E’ in questo quadro che va collocata l’operazione della candidatura Delbono. Adesso Bonacini chiede scusa. Ed è un atto di coraggio che va sottolineato. Lui del resto è arrivato dopo. Non c’entra. Caronna si prende stoicamente la colpa. E lui, invece, c’entra. Ma, al di là delle posizioni retoriche, è il passaggio post-Cofferati che andrebbe chiarito nei suoi aspetti di sostanza. Il mandato politico sotto la cui insegna avanza la candidatura Delbono appare evidente: ricucire laddove Cofferati aveva ‘rotto’. Per alcuni le ‘palle’ dei partiti e le loro abitudini coalizionali; per altri i nervi dei cittadini, bisognosi di ascolto, rassicurazione e simboliche identificanti; per altri, ancora, le legature degli ‘interessi’, la loro voce sulle scelte che contano, e assieme, i loro equilibri e le vicendevoli convenienze. Su questo programma in molti si ritrovano. Quasi tutti. Per i decisori politici la scelta era in certa misura obbligata. A parte la reticenza soggettiva, troppo rischioso azzardare di riuscire dove Cofferati aveva fallito. Nei panni di Caronna, Errani ed altri, pochi avrebbero scelto un’altra strada. Cioè l’accordo con la componente prodiana: la parte più esposta verso il centro, da dove veniva la minaccia. Perciò suscettiva di ‘scivolamento’. Come del resto era accaduto nel ’99. Il problema è però capire quali erano le proporzioni e le misure di questo accordo, i limiti da non superare. Cioè il perimetro politico e di progetto della governance. Ciò che gli eventi del piccolo 5 Piovoso sembrano mettere in risalto è che questi limiti, se c’erano, erano stati superati, e con larga autonomia. Forse ben al di là della disponibilità dei contraenti del patto. Troppo smaccata la gratificazione restituita da un certo inviluppo di interessi, per non pensare che la massa gelatinosa andava condensandosi attorno a un ‘centro’ stringente come mai. Che questo ‘centro ‘, o ‘milieu’, avesse trovato, in altre parole, il Suo Sindaco.

Chiuso qui, per adesso, il discorso. Anticipo alcuni temi delle successive riflessioni. Fra questi la ‘questione’ dei cattolici del Pd. Dove non mi è difficile trovare più di un legame con il quadro descritto. Che è anche la questione del rapporto da tenere con questo ‘centro’. La mia impressione è che con il fallimento dell’operazione Delbono, la sua autonomia locale di manovra risulta enormemente accresciuta. E tenderà a occupare i gangli della vita politica cittadina….

11 febbraio 2010


I master forum ci riprovano.
Per la sera di:

Venerdì 12 Febbraio ore 20,30
 Sala Passepartout Via Galliera 25

Titolo della serata:
Politica e società:
due universi paralleli, un’unica crisi


Con due brevi introduzioni tematiche (sotto i venti minuti) di:
Fausto Anderlini:
Il caso Bologna e il Pd. Cercare la profondità sulla superficie
Cesare Minghini:
La crisi economica e i problemi della rappresentanza sociale

Ricordate la riunione semiclandestina convocata nei sotterranei della Casa del Popolo “Spartaco” ?
Era il 13 Maggio 2009. Dopo le ripetute sconfitte elettorali e le dimissioni di Veltroni il Pd s’era desolatamente arenato. Svolte le primarie di Bologna, ci si avviava alle elezioni amministrative senza ardore ed un basso profilo. Fu una bella discussione, che si concluse con una proposta:

“Fare un forum per uscire dal cul de sac”

Dopo di allora non ci sono stati più incontri. L’amministrazione cittadina sembrava procedere secondo il suo corso. Il Pd è andato alle primarie che hanno incoronato Bersani. I master-forum sono stati presi dalle loro faccende. Cesare Minghini si è concentrato nell’editazione di una bella rivista sindacale (ERE), Anderlini è malinconicamente veleggiato a Terlingua (deserto del Texas).
Fare un forum, infatti, costa fatica. Ecco adesso è uno di quei momenti dove questa fatica bisogna farla, anche se non se ne ha voglia. Perciò, dopo quanto è successo a Bologna, ricominciamo...

INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

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Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)