18 febbraio 2010

Sinistra civica ?

Sinistra civica ? Che cos’è o possa diventare nessun lo sa, men che meno chi ne parla. Prosaicamente potrebbe incarnarsi in più cose: l’ennesimo cambio di nome del Pd (ad esempio con la riproposizione di un domicilio civico-locale, come fu in, età classica, quello delle Due Torri), l’ennesima proposta di una lista alleata da (supposte) posizioni di forza al Pd, l’ennesima insorgenza rivoluzionaria di ‘società civile’ contro partiti desolatamente incapaci di produrre sintesi politica. Etc. etc….. Deja vu. Soluzioni anche troppo sempliciste. Tali da far torto anche all’intelligenza di chi solleva il problema. Problema, in ogni caso, impellente: come produrre un rinnovamento di classe politica e di progetto. Un mutamento radicale, innalzandosi, come per contrappasso, dalla causale mediocrità della vicenda Delbono. Davvero segnaletico di una discontinuità, non meramente incrementale. A parte Zani, che ha enunciato per primo le due misteriose ‘parole chiave’ (‘sinistra’ e ‘civica’, senza peraltro offrire indizi più che evocativi), è stato Cacciari, con la fulminante capacità di sintesi che gli è propria, a richiamare il significato di una esperienza suscettiva di dare una forma un poco più concreta alla questione. Quella della lista del ‘Ponte’ lanciata nelle amministrative di Venezia del 1990. Una traccia che conviene seguire nel dettaglio, alla ricerca di qualche insegnamento che possa rivelarsi utile. A quell’epoca, del resto, chi scrive collaborava assiduamente con il Gramsci veneto (come membro del comitato scientifico), il quale aveva in Umberto Curi un alacre organizzatore e in Massimo Cacciari una guida più che intellettuale, ovvero carismatica. Attorno all’istituto veneziano gravitavano numerose personalità: docenti dello Iuav, come Tafuri e Dal Co, e dell’università di Padova (fra i quali Duso, Brandalise, lo stesso Curi), ex-dirigenti di rilievo del Pci veneziano, come Chinello, economisti (come Rullani), ricercatori dell’Ires Cgil (come Anastasia), e numerosi giovani intellettuali (ricordo Luca Romano da Vicenza e Renzo Guolo, da Treviso, ora acuto specialista di islamismo sulle pagine di Repubblica). Un parterre di esperienze e specialismi di notevole spessore, ma anche di individui politicamente impegnati (Cacciari stesso era reduce da due legislature come deputato Pci). Tutti nel fiore dell’età. Orbene fu proprio in quell’Istituto Gramsci che la lista del Ponte fu concepita. La lista non fu frutto di improvvisazione e di una mera ‘libido candidandi’, bensì di un lavoro preparatorio, politico e programmatrico, estremamente serio e durato almeno tre anni. Un lavoro collocato dentro la crisi finale del Pci ed il travaglio della nascita del Pds. Alla ricerca di soluzioni nuove, teoriche e, insieme, di radicamento politico. In quella proposta lo spazio civico è individuato non come un ridotto locale, un rifugio pragmatico e provincialistico alla crisi della politica. Ma come il laboratorio di soluzioni politiche più generali/esemplari. E’ all’interno di questo lavoro di scavo e preparazione programmatica, ad esempio, che viene precisato per la prima volta quel concetto di ‘Idea della città’, che farà da battistrada a numerose altre esperienze. In effetti quell’episodio fu il primo segnale di un ciclo politico che avrebbe poi caratterizzato l’epopea dei sindaci degli anni ’90. Cacciari , che era il capolista candidato a Sindaco di quella lista perse le elezioni (il Comune finì amministrato da un pre-posto tardo democristiano, con il sostegno del Psi di De Michelis), ma ebbe modo di rifarsi rapidamente nella sfida del ’93, vincendo il duello con il candidato leghista (tal Mariconda, che fu imbrigliato e quasi plagiato da Cacciari), diventando alfine Sindaco di Venezia. Va ricordato che in quello stesso anno salgono al soglio municipale Bassolino (a Napoli), Orlando (a Palermo), Castellani (a Torino), Rutelli (a Roma), Sansa (a Genova). Tutte le grandi città metropolitane, ad eccezione di Milano, vengono conquistate dalla sinistra di nuovo conio civico e si pongono le premesse che porteranno alla creazione dell’Ulivo ed alla vittoria nelle politiche del ’96. In sintesi nel ’90 nella Serenissima viene gettato il primo seme di un’intera stagione politica. L’esperienza veneziana, inoltre, verrà replicata con successo in diverse città del ‘veneto bianco’ dimostrando che era possibile infrangerne il muro (anche Fistarol, sindaco a sorpresa di Belluno, veniva dall’Istituto Gramsci).


Qual’era l’essenza dell’operazione il Ponte ? Anche favorito dal fatto di avere da poco rinverdito i ricordi col Cacciari medesimo, direi questo: la funzione-guida, di leadership politica, esercitata in via diretta da un gruppo di intellettuali politicamente orientati. Nella quale sono coinvolti, a seguire, il partito e le associazioni storiche del movimento operaio, con le loro organizzazioni territoriali. Non si tratta nè di arcaici intellettuali ‘organici’ (il Pci è allo stato terminale e il mito del Partito Principe è ormai sepolto da tempo), né di ‘specialisti’ aggregati alla politica, né di candidati estemporanei di ‘società civile’. Bensì di un ‘nucleo di progetto’ forgiatosi nella riflessione politica degli ’80, dentro il declino del Pci e dentro i mutamenti della società nazionale. E qui va fatta una precisazione sulla situazione veneziana. Partito e sindacato lagunari, non sono deboli (Venezia è ancora una città con una forte presenza operaia legata alla grande industria, non ha tradizioni ‘bianche’, come gli altri capoluoghi veneti, Padova, Verona, Vicenza ecc.). Tuttavia non sono in grado di esercitare una egemonia. A lungo sono stati esclusi dal governo cittadino, il più delle volte nelle mani della Dc e dei suoi molteplici alleati. Dunque, da un lato, partito ‘non forte’, anche se non ‘debole’. Dall’altro lato una concentrazione, rara nella sua potenza, di ‘materia grigia’ raccolta nell’istituto Gramsci. In tali circostanze il gruppo intellettuale del Gramsci s’insinua in un ‘quasi vuoto’, e prende la guida del processo politico. Non ponendosi in uno sterile antagonismo da ‘società civile’ riverginata con l’anti politica. Bensì esercitando l’egemonia sul mondo della sinistra. Con la proposta politica e il dinamismo della sua potenziale classe dirigente.

Rispetto ad allora molta acqua, come ovvio, è passata sotto ai ‘ponti’. Cacciari sta per chiudere il suo terzo mandato da Sindaco, dopo traversie, spaccature e ricomposizioni. Mentre l’ombra mignon di Brunetta incombe sulla laguna. Rutelli e Bassolino si sa dove son finiti. E dopo di loro Veltroni. La stagione di Orlando è durata poco. Solo Chiamparino è riuscito a far fruttificare al meglio l’eredità di Castellani. Ma anch’egli si avvia all’addio. Sansa a Genova ballò una sola estate, e se il subentrante Pericu ha saputo garantire un decennio di alto consenso, il mandato Vincenzi ha preso il via in modo tribolato. Molti altri sindaci, per quanto ambissero a seguire le orme dei Sindaci-pionieri, hanno lasciato eredità contorte e talvolta fallimentari. Vitali e poi Cofferati a Bologna. Dominici a Firenze. E se è vero che qua e là si propongono eccezioni, come Zanonato a Padova e la recente conquista di Vicenza, nonché la riconferma dell’eccezione trentina, medie città come Brescia sono tornate alla destra dopo gli illuminati mandati di Martinazzoli e Corsini. A Bologna la disgrazia Delbono è piombata sulla città come una bomba enne, richiamando in vita i fantasmi del ’99. Insomma la stagione della ‘politica delle città’ è passata. Il quadro politico, anche aggravato dal restringersi dei margini di autonomia per la crisi economica, è compromesso in più punti.

Eppure, dopo la quasi falsa ripartrenza di molte primarie locali, ritrovare un nuovo slancio nelle ‘periferie’, specie quelle urbane’, è una condizione assolutamente necessaria per il progetto nazionale del Pd (e la sinistra in genere). Ora, in questo quadro, io credo che l’esperienza del Ponte abbia un senso la cui sostanza è ancora attuale. La formulerei così: ripartire tramite robuste aggregazioni intellettuali nelle città, trasferendo su di esse funzioni non solo di analisi/progetto, ma di leadership.

Guardando a casa nostra, ci sono differenze rispetto al caso veneziano. Il partito era (e per certi aspetti è rimasto) forte. L’istituto Gramsci locale ha più spesso traccheggiato come un organo collaterale, rinunciando a entrare in modo diretto sulla politica. Del resto Bologna è una città dove è rilevante lo spessore ‘accademico’, con tutti i suoi difetti, delle cerchie intellettuali. Il Mulino/Cattaneo, l’altra grande aggregazione di rilievo nazionale, ha già dato. In più presenta una notevole frammentazione interna. Difficile immaginare una funzione di traino. E cionostante il partito si è indebolito, mentre larga parte del mondo economico-associativo ha subito una forte corporativizzazione (tanto da rendere patetica la sua attuale pretesa di surrogare la politica in quanto ‘società civile’). Si è creata una situazione in qualche modo analoga a quella veneziana di allora. Perciò ci sono le condizioni perché possa riproporsi un esperimento di leadership a matrice intellettuale. Il Gramsci si è dotato da qualche tempo di una presidenza dinamica, e se è vero che è arduo vedere in Carlo Galli, oggi, una replica del Cacciari di allora, è anche vero che di lì potrebbe partire, a spron battuto, un lavoro di progetto, coinvolgimento e aggregazione intellettuale sulla scala cittadina dal quale fare sfociare l’atteso cambiamento. Se la politica di partito è in crisi, se il sistema delle categorie langue nel declino del consociativismo, non è in una generica ‘società civile’ che occorre cercare le soluzioni. Bensì in una presa di responsabilità del lavoro intellettuale. Tornare a Lenin, e dal nucleo élitista del suo pensiero. Ripartire dalla testa. Da un’avanguardia illuminata. E poi cercare qualsivoglia soluzione utile allo scopo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bibliografia:


Leningalli, "Che fare di noi?"

Herzen, "Il passato e i pensieri insopportabili"

Cacciari, "Cristo! E noi?"

Gramsci, "L'albero dell'ulivo e il suo riccio sconcio"

Ardigò, "Crisi di governabilità e mondi anche troppo vitali"

Anderlini, "La mia Narodnaja volja"

Zani, "Civitas Dei e non solo"

(Rintracciabili tutti presso le edizioni del Mulino Bianco)

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INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

Come raggiungerci: consulta la mappa

Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)