2 marzo 2009

Dove vola l'avvoltoio (ovvero come t'impagino la città...)

di Fausto Anderlini Oggi, Lunedì 2 Marzo, un trafiletto di Prodi, a destra dell’unica pagina della cronaca bolognese di Repubblica non infestata dalle modeste e/o disastrose imprese di Virtus, Fortitudo e Bfc, segnala il suo convinto sostegno a Del Bono. Evidentemente Prodi, da diverso tempo assai parco di dichiarazioni ufficiali, deve avere considerato così fuori della misura le cubitali e puntigliose segnalazioni a proposito dei ‘transfughi’ di turno da non poterle passare sotto silenzio. Trattasi questa volta, dopo i post-comunisti, dei ‘sedicenti’ prodiani (Clo’ e Pecci) accompagnati a Guazzaloca, in lungo corteo, e in una impaginazione standard la cui organizzazione genera più di un sospetto. [Di Clò e Pecci, per inciso, colgo l’occasione per rimarcare le uniche cose che mi sovvengono a loro carico: quell’episodio, mi sembra di ricordare poco edificante, che all’aeroporto Marconi vide coinvolti Clò (che allora sedeva nel consiglio di amministrazione su mandato di Guazzaloca/Sangalli), la sua signora, e un qualche addetto alla farmacia (adesso non ricordo più bene, però per l’occasione scrissi sul Domani un articolo dal titolo: ‘La farmacia aeronautica’); e un illuminante intervento del Pecci sul Resto del Carlino. Nel quale ultimo, memore della sua esperienza trasportistica alla guida del bus dell’Ulivo, l’autore perorava l’attivazione di piste ciclabili sotto ai portici cittadini. E’ l’unico articolo che ho letto del Pecci sul giornale bolognese, e da allora ho reputato inutile approfondire ogni ulteriore conoscenza…. mentre nel frattempo ne ho fatta una nuova del tutto degna di questo precedente: il concorso per titoli ed esami proposto da Pasquino per selezionare i futuri assessori…]. La precisazione di Prodi porta in plateale risalto un interrogativo che da tempo molti si pongono: quale partita gioca il locale gruppo redazionale di Repubblica? Che ce l’avesse con Cofferati è noto. Oltre a Zap e Ida, Bignami, Mori, Chiarini e altri, a stento trattenuti dalla moderazione di Balzanelli, hanno prodotto una aneddotica così lunga e diversificata sul Cofferati da meritare senz’altro, non essendo disponibile il Pulitzer, il ‘Premio esordienti’ di Libero. Impallinare i sindaci del centro-sinistra è peraltro una passione che data dall’epoca Vitali: un’arte eccelsa che ha visto più volte soccombere, nella concorrenza, lo stesso Resto del Carlino. Se c’è una cosa nella quale Repubblica è letteralmente specializzata è origliare anche il minimo bisbiglio in casa Pd (al tempo Pds/Ds) e farsene prontamente megafono, al caso costruendoci sopra una cornice atta a suscitare il pubblico dileggio. Durante la recente festa de l’Unità sono state raggiunte vette insuperabili. Il mercato ha le sue regole, e i lettori di sinistra, si sa, amano parlarsi (e leggersi) addosso. Ridendo. Una passione che gli stessi dirigenti del Pds/Ds/Pd, di ogni ordine e grado, attivi o in quiescenza, alla disperata ricerca di un poco di pubblicità, magari di ritorno, hanno finito per condividere mescolandosi ai detrattori ed offrendosi spudoratamente nel teatrino cittadino allestito dai media. Immedesimandosi con la loro trasfigurazione parodistica. Caricature della caricatura. Ora, accusare la redazione locale di Repubblica di questa deriva così maldestra e grottesca sarebbe incongruo. Come accusare l’oste per l’esistenza degli ubriachi. Il male origina certo altrove. Però i nostri si sono messi di buzzo buono a coltivare la pubblica ebbrezza. Ai limiti dell’overdose. Del resto di questa ‘umanità’ diasporica sono essi stessi una componente, per appartenenza culturale, sociale, politica e anagrafica. Ma è poi così bizzarro aspettarsi un poco di deontologica moderazione? Un qualche ritegno nella chienlit ? Molte delle chiacchere paiono letteralmente inventate o sobillate ad arte. Né si poteva immaginare che la mission redazionale finisse per coincidere, esplicitamente, con la coltivazione dell’elettorato ‘dispettoso’: quello il cui fine è di nuocere a cio’ che resta della sinistra, abbandonandosi all’invidia e godendo a più non posso del ‘mal comune’. Ecco: questa inclinazione ‘pasquiniana’ (con nessun altro riferimento che non sia il noto monumento papalino) ha tracimato ogni difesa. Accade anche su scala nazionale, ma lì ci sono le sobrie condotte di Scalfari, Mauro e Curzio Maltese a fare argine. Essi vorrebbero forse dirigere il Pd (cosa discutibile, ma lecita). Sicuramente non lo vogliono distruggere (almeno non tanto quanto il Pd provvede da sé medesimo). In più – là – il nemico Berlusconi tiene in forma la baracca. Per questo noi elettori ‘fedeli’ del Pd, cioè ‘militonti’ incalliti, continuiamo a comprarlo. Qui invece, sulla scala locale, di quella sobrietà e di quel nemico non v’è alcuna traccia. La città è trattata come una sorta di ex-repubblica sovietica isolata dal mondo e bisognosa di bonifica, al punto da indurre a pensare che la destra, Cazzola, Guazzaloca – chiunque, insomma - possano redimerne la presunta ’decadenza’. Perché lì vanno le cose, a toccare corde alle quali persino Berlusconi non arriva (del resto a Lui, vista l’alacrità che ferve spontanea nella cortiletto domestico, basta stare a guardare). Una visione, questa che ci è propinata ogni dì, letteralmente distruttiva ed atta a sfibrare, con la sua ripetitività, ogni difesa psicologica. Del resto se alla fine le cose andranno come molti si augurano, sarà il pd a dover fare l’autocritica, raccogliendo cocci e stracci, mentre molti di costoro non lesineranno di salire in cattedra trombettanto lezioni e j’accuse. Ci saranno altre pagine per riempire la cronaca. O forse, morto e sepolto l’antico Bolokistan ed annesse le spoglie ad altro aggregato berlusconide, assieme al Firenzokarabak, magari con una parvenza di autonomia, con tanto di ambasceria casiniana, come sotto l’antico Regime, ci saranno altri culti cui rivolgere lo spirito. Noi, allora, saremo 'esuli in patria', cioè a Borgo Panigale, lanciando maledizioni: "Dio della comunicazione, che hai dato le televisioni e tutto il resto a Berlusconi (e l'Unità a Sinistra Democratica), perchè non ci hai lasciato almeno il Domani?". Di fronte a un destino così cinico, non ci resta che fare un ex-voto. E sperare. Se un qualche Dio riparatore ci farà la grazia, liberandoci dal mal-civico, siamo pronti a portare in sagrestia ogni arto che ci è stato amputato.

1 marzo 2009

Franceschini e il centro della massa

di Fausto Anderlini Col piffero che, come si perora con enfasi costruttivista, ‘non conta da dove si viene ma dove si va’! Rischiando di rimanere fulminati, piuttosto, si può azzardare un assioma: in politica conta più da dove si viene che dove si è. E varianti: il percorso più della meta. Ma soprattutto fa una gran differenza la posizione di chi guarda: se di fronte o di spalle. Fronte/retro. Ci si chiede da più parti quale sia la ragione per la quale chi viene dai Ds naufraga puntualmente sugli scogli della prima leadership, lasciando il campo a chi viene dal di fuori di essa, ovvero dal ‘centro’. E’ proprio vero: un destino cinico e baro, che però non ha che vedere col caso, ma con la geometria. E che adesso vale non solo per la premiership, a qualsiasi livello di governo, per la quale, come noto, è cruciale l’attrattiva al centro, ma anche per la segreteria del partito. I partiti, si sa, come tante altre cose, si governano ‘al centro’, o meglio dal ‘baricentro’, quel punto geometrico ponderato sulla base dei pesi di quel che gli sta attorno. Luogo che nella fisica è anche denominato – con una plastica espressione sindacale - ‘centro delle masse’ (si può anche richiamare la ‘prima equazione cardinale’, la quale recita che ‘il centro di massa di un sistema ha lo stesso moto di un singolo punto materiale in cui fosse concentrata tutta la massa del sistema, e su cui agisse la risultante delle sole forze esterne agenti sul sistema). Nei partiti stabili, con stratificazioni collaudate e durature di classe politica, il centro auto-persiste. E’ popolato dalla più gran parte dei dirigenti di vecchio corso (al caso vituperati come ‘oligarchi’, ‘notabili’, ‘burosauri’) mentre chi sta sulle ali ha consistenza normalmente scarsa, più ‘testimoniale’ che politica. In quelli instabili, o ‘aperti’, per non dire ‘liquidi’, il centro è un luogo situazionale che deve essere prima definito, quindi occupato. In una situazione di ‘contendibilità’. In altre parole al ‘centro’ ci si va. Non lo si eredita, ma lo sicostruisce. Proprio perché il peso della massa non è concentrato in un unico punto (avendo in sé stessa il ‘centro’), ma re-distribuito in uno spazio più ampio (e caotico). E’ proprio questo il caso che ci riguarda. E’ per il Pd, come è oggi, che calzano a pennello gli assiomi azzardati in inizio. Franceschini, fino a poco fa prima irriso come ‘reggente’, eminenza grigia fragile e intronata da oligarchi manovrieri e spregiudicati, anziché da bagni di folla ai gazebo, figura di basso profilo nonché espressione di una ‘storia minore’, sembra guadagnare con rapidità un vento di simpatia. Perché ? In primo luogo perché siamo alla frutta, e dunque: ‘Primum vivere, deinde philosophare’. Con il gorgo dell’inabissamento spalancato sotto i piedi, con lo scafo bucherellato e i barbari pronti all’arrembaggio finale, tutto l’equipaggio ha infine convenuto di cooperare per turare le falle (anziché aprirne di nuove). Qui ed ora. In secondo luogo perché Franceschini ha almeno per un aspetto spostato l’asse del Pd, rettificando l’ondivago incedere di Veltroni. Berlusconi è stato infine ‘nominato’, in più è stato associato a un progetto di regime. E’ vero che la fortificazione del Pd sul territorio costituzionale in opposione al disegno neo-autoritario della destra implica un arroccamento difensivo e sconta l’impossibilità di una sortita di governo, al di là del cleavage, per un tempo non breve. Ma sapere cosa difendere, in tempi bui, è comunque meglio che non sapere cosa fare. Risolve quantomeno un problema e sospende un’incertezza paralizzante. Lo stesso dicasi per le parti del discorso di Franceschini relative alla laicità (testamento biologico) e alla collocazione internazionale. Si resta ancora in mezzo al guado, ma almeno viene posto un alt a percorsi orientati ad approdi inquietanti: un avvicinamento al Vaticano e un allontanamento dalla casa del riformismo socialista. Comunque evolverà il profilo del Pd sarà comunque ‘laico’, al di qua del Tevere, e, secondo le stesse parole di Franceschini, in nessun altro luogo dove non compaiano i socialisti europei. Per adesso – nell’epoca del primum vivere – può bastare. Almeno dirada un silenzio dietro al quale era legittimo coltivare sospetti e dietrologie. Ma c’è dell’altro. Franceschini piace ‘a sinistra’ esattamente perché viene dal ‘centro’. Ovvero per le stesse ragioni che irroravano di riconoscenza l’incedere di Prodi o la strenua resistenza di Scalfaro. Ponti d’oro a chi ti viene incontro. Vituperio e sospetto per chi, venendo dalle tue fila, ti volge le spalle. Cioè va al centro. Diciamoci la verità. Fra i due sguardi che s’incrociano – il centro che guarda a sinistra, e la sinistra che guarda al centro – solo il primo sembra soddisfare i diversi palati: quelli moderati, che si vedono riconosciuta la leadership, sia pure a qualche prezzo, ma, soprattutto, quelli, peraltro assai più numerosi, della sinistra. I quali ultimi, infatti, si sentono gratificati d’essere la ‘massa’ che attira la gravitazione. Anziché la massa del cui peso ci si vuole emancipare. Una figura di ‘moderato’ per fare una politica di sinistra, in definitiva, ha molto meno contro-indicazione di una figura di ‘sinistra’ per fare una politica ‘moderata’. L’uno è beneficiato dell’aura del ‘convertito’, l’altro dell’apostata, che abbandona gli ideali per ragioni di potere. Ancor di più: per queste ragioni sarà addirittura preferibile il Leader che venendo dal centro Z si dislocherà nel punto M2, ben al di qua del baricentro M, che il leader che venendo da sinistra A si feremerà a M1, cioè più prossimo a sinistra che al baricentro. Tutto questo forse non è vero. Quasi certamente è anche sbagliato. Sicuramente odioso, perché fa dei leader che vengono dalla storia della sinistra i ‘figli di un Dio minore’. Ma così è. Dunque: Franceschini Uber Alles. La posta, del resto, non è vincere (o non perdere) le europee, ma salvare Bologna e Firenze dalla calata dei barbari. Se Franceschini, il cattolico bianco che viene da Ferrara, riuscirà nell’intento (e non ci sono alternative a una strenua lotta di difesa) le due grandi regioni rosse avranno trovato un’altra icona per un pantheon che col tempo è diventato eteroclito come mai.

INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

Come raggiungerci: consulta la mappa

Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)