23 ottobre 2009

Previsioni


Si avvicinano le primarie e come di consueto azzardo una previsione. Il tentativo di Scalfari di trarre dal mezzo Marino (non escluso in vista di un vantaggio per Franceshini) mi sembra fallito. A giudicare da quanto si vede Marino potrebbe totalizzare un exploit anche superiore al 20-25 %. Dalla sua c’è tutto il popolo ‘radical’, alle diverse latitudini: civili, sociali, moderate ed estreme. In sintesi il nerbo della classe media intellettualizzata dei centri urbani (del nord), al caso grillizzata e dipietrizzata, con il blog in mano e spesso intrisa di moralismo travagliano, quindi anche vagamente leghista (come tipico di coloro che si fanno alfieri di un’etica assoluta laddove le condizioni permettono di farlo col minor costo….). Insomma un veltronismo aggressivo e dipietrizzato, che potrebbe aver scavato voragini sotto ai piedi di Franceschini. Bersani ha seguito il suo corso, senza scartare. Al sud le filièeres personalizzate potrebbero favorirlo in guisa ancora maggiore che fra gli iscritti. In Emilia-Romagna, a mio parere, avrà un risultato ottimo, perché Bersani è più popolare fra la gente (un emiliano doc) di quanto lo sia entro il partito. Se ciò accadrà anche il Bonacini (che non mi sembra niente male, un giovane volitivo sintonico alla parlata emiliana) ne trarrà beneficio per trascinamento minimizzando le speranze della Bastico. In sintesi vedo, per il Lunedì di conto, un Bersani a cavallo del 50 %, con Marino che insidia Franceschini. Queste primarie dovrebbero mettere in ancora maggior risalto una frattura già visibile fra gli iscritti: Bersani da una parte, Marino dall’altra, con Franceschini in uno spazio di mezzo relativamente ristretto (tutto quanto resta della mediazione svolta da Veltroni nel corso del suo mandato). Ovvero: da una parte un melange di ceti popolari rappresentati dal network storico della sinistra, dall’altro le classi medie intellettualizzate e ‘riflessive’ (in realtà radicalizzate). Avere davvero in mano il destino del Pd significa trovare il mastice fra queste due anime, ovvero una mediazione efficace. Scegliere Bersani significherà spostare il centro della mediazione a vantaggio della prima componente, e viceversa. Per questo sono a favore di Bersani, come ho argomentato in innumerevoli interventi. Per quanto le classi medie politicizzate siano essenziali nella stratificazione della sinistra, una loro totale egemonia sarebbe insopportabile e taglierebbe definitivamente i ponti con una base popolare che nelle periferie territoriali è già ampiamente franata. Resta da chiarire l’afflusso dei votanti. Dovrebbe essere facile prevedere il superamento dei due milioni (direi 2 milioni e mezzo). Intanto ogni iscritto al Pd ne trascinerà almeno due. Poi ci sarà una parte aggiuntiva mobilitata da due stimoli: un segnale a Berlusconi, un segnale di vita identitario della sinistra. Forse il primo stimolo giocherà a vantaggio di Marino e Franceschini. Il secondo però dovrebbe sostenere Bersani. Dalla misura in cui i due ingredienti si mescoleranno dipenderà anche l’esito (come entità, se non come tendenza) della competizione.

16 ottobre 2009

io e COFFERATI. Una intervista di Diego Costa al sottoscritto, apparsa ridotta su "Bologna" 11 Ottobre


1) E' passato un anno dall'annuncio di Cofferati, la sua indisponibilità a un secondo mandato. Che ricordi hai di quei giorni? All'interno del partito fu un terremoto? R. Ci fu, come ovvio, sbalordimento, soprattutto nei sostenitori. Coloro che l’osteggiavano, in fondo, trovarono conferma dei loro pregiudizi. Più che sentirsi sollevati di un peso si sentirono rinfrancati sino all’euforia nell’aver ‘visto giusto’: “Io l’avevo detto”. Ricordo che Sassi, un poco a nome dei ‘Formidabili’, giunse a pretendere le scuse dal partito, mentre in alcune redazioni di giornali (almeno una che conosco, quella di Repubblica) si brindò alla ‘liberazione’. I sostenitori invece si sentirono, altrettanto naturalmente, ‘traditi’. Cioè non presero sul serio le giustificazioni familiari avanzate da Cofferati. Bisogna dire che per costoro il lutto durò comunque poco. In fondo in fondo, essi sì, si sentirono come sollevati. Molti, in cuor loro, dubitavano che Cofferati, al punto in cui erano giunte le cose, e con dati di consenso palesemente controversi, riuscisse a reggere lo scontro con la destra. Con Cofferati in campo il fantasma di una ‘grande ritorno’ di Guazzaloca generava una qualche inquietudine. I dirigenti del partito, per parte loro, avevano percezione della situazione. Si deve pensare che da tempo avessero messo in conto un ‘second best’. E lo si vide nella rapidità della convergenza su Del Bono. 2) Un anno dopo... com'è cambiata la nostra vita? R. E’ cambiata la nostra vita ? Direi per niente, se non nei modi e nella misura che è dettata dal quadro più generale che la determina. In seguito alla crisi sono diminuiti redditi e consumi, mentre il futuro si è fatto ancor più minaccioso. Altro è il discorso della ‘psicologia cittadina’, la quale, come noto, ha un tratto tipicamente ‘domestico’. Si sublima in modo proiettivo e patologico sul Primo Cittadino, evocato di volta in volta come un curatore o un demiurgo, oppure additato come reo di ogni genere di mali. Nelle città ci sono sempre le più svariate giustificazioni per dare sfogo al naturale brontolio della gente. Anche intellettuali, opinion leader, eminenti autorità morali, quando si siedono nel salotto di casa, contribuiscono alle più surreali discussioni. Come il lungo dibattito crepuscolare sulla crisi/decadenza della città, misurata ogni fine anno sui due/tre posti guadagnati o persi da Bologna nella classifica del Sole 24 ore. Sino a dar luogo ai più comici risvolti profetico-letterari: dalla città “sazia e disperata” all’”alzati e cammina”, passando per “risorgi Bologna” ed altre amenità prive di senso. Se si considera che anziché mettersi a ridere, c’è chi si abbandona all’esegesi ispirata (e fra costoro non può mancare l’esimio De Plato) si può avere la misura di una certa mutazione antropologica nella città. Dove il gusto per l’aforisma roboante e smisurato (letteralmente ‘fuori di scala’) si accompagna alla passione per il cicaleccio da pianerottolo. E’ la fenomenologia di ‘Bolokistan’, della quale già un’altra volta abbiamo avuto l’occasione di parlare. Tornando ai cicli psicologici della città, siamo passati attraverso varie fasi: Guazzaloca fu elevato in cielo per il suo accattivante minimalismo, salvo scocciare un po’ tutti con il ricorso sistematico al gigionismo auto-celebrativo (cosa alla quale indulge tutt’ora), sino a trasformare la città in una specie di presepe (con statue, padri pii ecc.). Cofferati fu accolto come un Deus ex Machina: un eccesso di calore (e di aspettative) destinate presto a pietrificarsi in una specie di strutturale incomprensione. Per dieci anni, in sintesi, il ciclo psicologico ha avuto un andamento rapsodico e schizofrenico. Alle spalle il fantasma dell’antica ‘grandezza’ della città: che per la destra più prosaica (ma anche per la sinistra salottiera pre-post-moderna, letteralmente ou-topica, e culturalista, al meglio incarnata da Cervellati) erano i fasti pre-unitari, barocchi e controriformatori; per la sinistra era la città rossa del dopoguerra e dei ’60, con la sua vis ideologica e riformista. Fantasmi fondamentali per parametrare l’inquietudine del presente e/o instillare vere e proprie euforie progettuali (con annesso mito del ‘grande ritorno’). Dopo tanto dispendio psichico era logico aspettarsi (come si sta confermando) una stagione di distacco, pacatezza e moderazione. Sotto questo profilo, a parte quel che passa il convento italico, Del Bono si trova in una condizione estremamente favorevole. Non essendo accompagnato da grandi aspettative è anche al riparo dal rischio di pesanti retroazioni da disillusione. Anche considerando che i fantasmi alla base della nevrosi si sono ancora un poco allontanati, sino a sbiadire nel nulla, senza avere il fiato sul collo di una psicologia pubblica apprensiva può agire con più margini di autonomia e sicurezza. 3) Al sindaco di ieri sopravvive il suo fantasma. L'Opposizione ha di recente chiesto la verifica dei suoi impegni, opportunamente evitata dalla Maggioranza. Come mai il Cinese continua a incarnare superficialmente il "non sindaco"? Non è un complesso di inferiorità della città? Non è provincialismo nel senso più negativo del termine? E come mai la cosiddetta "discontinuità" resta un obiettivo amministrativo, dagli uni sottinteso, dagli altri amplificato R. La discontinuità è un’altra di quelle parole-chiave allusive a chissà cosa e che invece non vogliono dire niente. Rispecchiando semmai la vuotezza di chi le pronuncia. Bisogna dire che in campagna elettorale Del Bono ebbe la saggia avvertenza di non cadere nel tranello di chi pretendeva marcasse in ogni modo la ‘discontinuità’ con Cofferati. Che la destra e altri (come Guazzaloca, ancora adesso stordito dalla mazzata del 2004) vi faccia ricorso è normale. In realtà ogni amministrazione è giocoforza in continuità con la precedente, anche quando di colore politico diverso. Lo scheletro della politica amministrativa è relativamente rigido, anche se le guarnizioni e le nervature, specie stilistiche, possono cambiare. Dopo la spigolosità di Cofferati e del suo stile di governance basato sulla ‘conflittualità-negoziale’ era prevedibile si passasse a modi molto più concorsuali e ‘rotondi’. Cosa che si vede (anche troppo) nelle prime mosse di Del Bono. 4) Cofferati sindaco: cosa ha fatto bene, cosa male? E' stato davvero lo "sceriffo"? C'è un altro modo per definirlo, magari più originale? R. Credo che Cofferati non abbia fatto nulla di male e diverse cose buone. Alcune innovative, come il Piano strutturale e i progetti di riqualificazione urbana, altre in continuità con la tradizione, come i servizi sociali e la politica tariffaria. Sulle infrastrutture si è mosso stretto da condizionamenti oggettivi. Fare qualcosa, soprattutto senza disfare quel che c’è (piaccia o meno) è più difficile che immaginare piani a ‘tabula rasa’. La tabula è scarsa, ma mai rasa (ecco un esempio obbligato di continuità – al massimo, ricorrendo a Togliatti, di ‘unità nella diversità’). Non cè nulla di ciò che Cofferati ha fatto che non sia ascrivibile a una politica di sinistra. A parte le descrizioni caricaturali, anche la sua politica di inflessibilità legalitaria associata all’integrazione degli immigrati si muoveva su un piano per nulla trevigiano. Se il governo Prodi l’avesse adottata subito probabilmente si sarebbe fatto qualcosa di bene. Infine lasciando il campo Cofferati lo ha anche liberato a favore del centro-sinistra (Pd e coalizione). La destra si è divisa e Del Bono ha potuto vincere senza troppi patemi. Avesse vinto la destra, allora sì sarebbe stato giusto incolpare Cofferati di gran parte della responsabilità. 5) Da Cofferatiano convinto ti sei lasciato sfuggire una frase: mi sento tradito. Puoi spiegare il perchè? R. Dall’arrivo di Cofferati io non ci ho guadagnato nulla, perciò nulla ho perso dalla sua dipartita. E’ possibile che gli abbia costruito addosso un vestito che non era suo fino in fondo. Sbagliando persona e perdendomi dietro un auto-illusione (come mi ha detto un amico con il quale posto piacevolmente). A me lo stile conflittuale-negoziale (cioè prima ci si misura-dichiara nell’ostilità, poi si fa l’accordo, ma sempre conservando al soggetto pubblico la sua ‘autonomia’) piaceva un sacco. Beninteso: io sono assolutamente favorevole alla concertazione sociale. Oserei persino definirmi un seguace del Guild Socialism. Ma non sopporto le dirigenze che trasformano la rappresentanza in privilegio cetuale. Le grandi organizzazioni sociali (coop, sindacati, associazioni di categoria) sono una grande risorsa ereditata dal passato, ma in molte di esse è ormai spenta la linfa della cittadinanza sociale. Nella spigolosa affermazione di distanza di Cofferati vedevo una possibilità di riaprire processi di ri-legittimazione democratica nel tessuto delle associazioni, emancipandole dal rischio dell’oligarchismo. Nello stesso tempo mi da anche fastidio la petulanza comitatistica, che io reputo una forma depravata della partecipazione. Perciò per tutto un periodo mi sono sentito in sintonia col Coffy, anche intimamente (scusandomi per l’iperbole): lui, un forestiero, io, uno straniero in patria. Questo approccio, in ogni modo, non è passato. Alla fine le forze inerziali della città hanno prevalso. Ma il problema resta aperto e il Pd, dovrebbe porselo come Il suo problema. Dulcis in fundo è vero che Coffy mi ha lasciato di stucco. Non perché se ne sia andato. Ci avesse detto che il suo percorso era terminato, presentando un bilancio, e che era giunto il momento, anche per evitare rischi al Pd, di dedicarsi ad altro – come fa ogni capo politico degno del cinismo del ruolo - avrei ingurgitato meglio la pillola. Ciò che mi ha scocciato è stata la tiritera sul figlio…..mi sono sentito un po’ preso per i fondelli. 6) Infine: nel Pd continuano le baruffe chiozzotte. L'occasione per migliorarsi la dà sempre la...casa dei vicini. E' di ieri l'appello all'unità da parte delle parlamentari Lenzi e Zampa. Non sarebbe davvero un buon segnale giungere al congresso con un ritrovato intento comune, che faccia leva sul segnale giunto dalla corte costituzionale? R. Per il Pd auspico che si consumi il più rapidamente possibile il passaggio al suo Termidoro. Cioè la fine della fase ‘rivoluzionaria-confusionaria’. Un Segretario, una identità accettabile, una organizzazione (solida quel tanto che si può – liquida lo è già ad abundantiam), un programma di alleanze sociali e politiche, e di soluzioni all’altezza della crisi. Purtroppo, essendosi dato uno Statuto demenziale, questo risultato stabilizzante è fortemente a rischio. Nel polverone è inevitabile si sentano le cose e gli appelli più strani. I documenti congressuali erano tutti sotto il livello della necessità, ma ho appoggiato Bersani, perché lo reputo il più adatto a realizzare a breve il Termidoro, sperando poi di trovare, in prospettiva, una qualche via inesplorata alla salvezza. E comunque non tutto è cacca. I giornali, specie quelli ‘amici’, oltre a perdersi a descrivere i litigi (in ottava pagina) avrebbero dovuto sottolineare come 460.000 votanti sono una forza (e una prova) che merita rispetto. Dove si vede in Italia una tale prova di democrazia ? E in Europa ?

7 ottobre 2009

Il congresso Pd fra il lupo (la destra) e il loop (sé stesso).


450.000 votanti sarebbero grasso che cola. Se, e sottolineo se, con la Mina sotto il culo: 1) ci fosse stata una stampa che ne avesse sottolineato il valore (mentre il dato era riportato non prima dell’ottava pagina, accompagnato alle consuete comarate dei diadochi). Non c’è partito al mondo, quantomeno in Europa, che possa vantare una membership di tale mole, e si dovrebbe trarre la conclusione che il Pd, almeno sotto questo profilo, vive buonissima salute. In un paese dove i partiti sono protesi di capi auto-legittimati (da Barlusconi a Di Pietro, passando per Casini) e dove, come conseguenza, non si fanno congressi di sorta, ma solo raduni acclamatori, non c’è uno straccio di osservatore che abbia avuto parole di elogio e di meraviglia per questo ‘miracolo’ (ivi compresi quelli di Repubblica). Non c’è stato un giorno in cui questi 450.000 sfigati godessero di un vantaggio sulla D’Addario. 2) tutti i contendenti ne avessero tratto lezione per comportarsi come si deve. Cioè valorizzare quanto avvenuto. Il rapporto votanti/iscritti è risultato altissimo, ben superiore a quelli totalizzati a suo tempo dai Ds, per non parlare del Pds o dello stesso Pci. Se tanta gente a votato non è perché è stata trainata da tizio, caio e sempronio. Quantomeno, non solo. E’ andata a votare perché ha avvertito che le si offriva uno strumento reale. Non predeterminato negli esiti. Dunque, si è trattato di una grande prova di democrazia e partecipazione. Pure scontando deficit palesi nell’organizzazione della discussione e nell’offerta programmatica dei candidati, con la conseguente enfatizzazione del votificio. I franceschiniani, in proposito, sono quelli che hanno steccato di più. Marino, a parte ualche richiamo alla ‘questione morale’ degno di un idiot savant, ha avuto la saggezza di rivendicare il proprio risultato. Come Bersani, malgrado le castronate di alcuni suoi luogotenenti. I franceschiniani si sono invece messi subito di buzzo non a valorizzare il proprio risultato (tutt’altro che disprezzabile), ma a svalorizzare quello di Bersani. Con l’argomento demenziale che il Nostro sarebbe stato votato dalle clientele meridionali (come se la Sicilia fosse la Svizzera) e dagli apparati di partito. In realtà il voto segnala, ovunque, un forte rimescolamento: di militanti, gruppi dirigenti, apparati (per quel che ne resta). Vedasi in proposito il caso dell’Emilia-Romagna, dove è palese l’eclisse del (supposto) monolitismo d’apparato. Ma, a maggior ragione, anche il caso della zona rossa tutta considerata. In ogni caso il partito è quello che è. Essendo italiano, necessariamente, è fatto di un Sud, di un centro e di un nord…. 3) questa votazione avesse potuto essere implementata in una dinamica congressuale come si deve. Non dico un ritorno ai vecchi fasti della ‘democrazia deliberativa congressuale’, ma almeno evitando d’infilarsi in uno statuto letteralmente demenziale. Non c’è organizzazione al mondo che non si dia uno statuto per preservare sè stessa. Il Pd, con i suoi grandi legislatori (vecchie volpi e neo-costituzionalisti apocrifi e di nuovo pelo) – unico caso al mondo – è riuscito a dotarsi di uno Statuto che contiene un dispositivo di auto-dissoluzione. Se il risultato delle primarie dovesse dare ragione a Franceschini (Dio ce ne scampi !) avremmo una situazione scismatica, cioè due segretari (uno dell’interno, il partito, uno dell’esterno, gli elettori) con diversa fonte di legittimazione. Non si sa proprio dove si possa andare a finire. Anche perché tutti i casi preventivabili (a meno di una vittoria netta di Bersani) lasciano aperte strade assolutamente indeterminate. Lo Statuto del Pd, non solo Barocco, ma intimamente stupido, era stato pensato (unica giustificazione) nel quadro di un modello maggioritario nel quale il prescelto era prima di tutto il candidato alla premierschip. Esattamente come nel modello americano, dove però non c’è il segretario di partito, e dove il processo ha ben altra coerenza. Esso parte dall’autonomia degli Stati federali (mentre qui i segretari regionali sono cooptati dal referente nazionale…bell’esempio di federalismo !) e procede eliminando gli outsider, così da produrre l’unità (all’atto della convenzione nazionale) attorno all’unico candidato in pista (mentre qui restano tutti in gara, più felici che mai di far pesare il potere delle minoranze). Per tornare a noi le circostanze, caduto Veltroni, hanno seguito un corso imprevisto. Nei fatti siamo a scegliere un Segretario di partito non un candidato premier. Di qui un totale disassamento del metodo. Resta il fatto che anche ove le cose dovessero mettersi per il meno peggio, il problema del Pd resterebbe inalterato: come trovare un ubi consitant dell’identità, dell’organizzazione e dei gruppi dirigenti. E’ del tutto evidente che anche vincendo Bersani (come ci si augura – ripeto – per evitare una diaspora senza fine) egli si troverebbe davanti la realtà di un partito diviso e tutt’altro che amalgamato, con opposizioni talmente forti da potere interdire qualsivoglia linea politica (come già accadde ai Ds all’epoca del Correntone). Abbiamo già sperimentato a iosa (con buona pace della Bindi e di innumerevoli apprendisti stregoni) che un partito non si può governare a maggioranza (almeno le minoranze siano così residue da rendere pleonastica la questione). Un partito non è un parlamento. Ci si sta perché in esso ci si riconosce e ad esso si partecipa. La ricerca di soluzioni unitarie è un obbligo. Costi quel che costi. L’aggettivo maggioritario va bene sin che si tratta di contrapporlo al minoritarismo (al caso testimoniale) come vocazione. Per il resto, trattato come sostantivo, è una idiozia. Se le correnti possono essere un lenitivo dell’eventualità di spaccature, allora sono tutt’altro che da disprezzare. In ogni caso, se si è capaci, si trovi quello che si vuole. Ma non il metodo maggioritario ! Abbiamo già dato…. Il peggio è che la storia va per le lunghe. Anche dopo le primarie gli organi dirigenti periferici conseguenti al congresso non saranno in carica che dopo le regionali. Nel frattempo può accadere di tutto, con segretari locali che restano in carica, magari incattiviti, pur essendo minoritari. Dulcis in fundo, incombe, sopra tutto questo baillame endo-masturbatorio, una micidiale convergenza di crisi economico-sociale e istituzionale, con la berlusconizzazione ormai giunta al suo apice eversivo. In tali circostanze, invece di fare un congresso, avremmo dovuto avere un partito in grado di drammatizzare la crisi scendendo sulle piazze (e confidando sul supporto dell’opinione pubblica europea). Agendo la drammatizzazione attivamente (come fossimo in Iran o in Ucraina), piuttosto che subirla ad opera della destra, con l’accrescimento della timidezza. Prende fuoco la casa e noi siamo lì a giocare a carte nello stanzino! Anche per questo andrò alle primarie, e mi auguro che ci vadano in molti. Per votare Bersani, in modo da evitare il peggio, e per metterlo in condizione di esercitare una leadership finalmente unitarista, anziché maggioritarista. E per metter fine al loop al più presto.

INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

Come raggiungerci: consulta la mappa

Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)