22 settembre 2009

All'orfanatrofio. Dove intellettuali e politici non si vedono nè si parlano.


Porgo ai blogger questi appunti. Me li ha suggeriti un libro scritto da Salvatore Biasco (Per una sinistra pensante, i libri di Reset, Marsilio) che ho avuto l’occasione di discutere alla Festa de l’Unità. L’autore è molto interessato (avendola vissuta sulla sua pelle) alla questione del rapporto fra politica e intellettuali. Tutto il libro è una denuncia, per quanto a fin di bene, del Pd, accusato di non aver saputo proporre una propria cultura politica. La verità è molto semplice. Un partito di ‘visione del mondo’ non può fare a meno degli intellettuali, un ‘partito di occupazione delle cariche’ può farne del tutto a meno o, se proprio ne ha bisogno, terrà un rapporto selettivo e strumentale. Li userà, cioè, come ‘portaborse’. Il Pci gramsciano (nella felice e occasionale sintesi dei ’60-’70) era un ‘intellettuale collettivo’. Ciò non rendeva affatto sovrapponibili i ruoli di direzione politica e di elaborazione culturale. La distinzione fra insider (collocati sulla tolda di comando) e outsider (stivati più in basso), era enormemente più marcata di oggi. Infatti non si tenevano primarie e il processo di selezione dei leader era totalmente privo di quegli elementi stocastici, cioè casuali, che oggi constatiamo a iosa. Nessun dilettante, intellettualizzato o meno, poteva ascendere (‘per caso’ e sulla spinta di un’ordalia partecipazionistica) alla dignità dirigente. Tuttavia tutte le situazioni erano contenute nel ‘partito scuola’. Il quale, come ogni scuola che si rispetti, era organizzato per rigide gerarchie e attraverso una minuta specializzazione di ruoli e mansioni. Il partito scuola era peraltro assolutamente affine al partito-fabbrica, nell’accezione fordista del termine. Nel partito scuola c’erano le strutture pedagogiche, per i vari livelli di preparazione, ma anche i centri di ricerca, peraltro assai liberi nei loro indirizzi. La stessa esistenza di un nucleo di pensiero condiviso ne rendeva possibile diverse traduzioni, anche in sede teologica (come nella Chiesa). C’erano ad esempio diverse varianti epistemologiche del marxismo: idealistico-crociane, ovvero storiciste, neo-positiviste, neo-kantiane ecc. spesso in lotta feroce fra di loro. Inoltre era rappresentata l’intera gamma delle sensibilità e delle traduzioni politiche del marxismo: luxemburghiane, adleriane, labriolesche, leniniste, soreliane ecc. Tutt’altro che agire come un elemento dottrinario respingente il minimo comune marxismo condiviso (mcm) era aperto alle più varie contaminazioni provenienti dalla filosofia, dalla storia, dalla letteratura, dalla sociologia e dall’economia. In ogni modo, dirigenti, quadri, militanti, intellettuali e simpatizzanti erano inseriti in un ambiente avvolgente, proprio perché centrato su alcuni elementi forti di cultura politica, dibattuti ma sostanzialmente condivisi, almeno come parametro di riferimento. Questo, beninteso, era un partito la cui base sociale era prevalentemente operaia, mentre in origine era costituita dal proletariato agricolo. I massimi dirigenti erano quasi tutti di formazione intellettuale, ma i quadri erano tratti dalle classi sociali rappresentate, che attraverso la cultura erano chiamati ad emanciparsi. Resta infine che fra intellettuali orientati alla politica e politici di estrazione intellettuale era facile intendersi. Certo per affinità di ceto, cioè per il valore tributato alla cultura nella definizione del sé, ma anche perché, quantomeno, avevano letto gli stessi libri. C’era comunanza semantica e concettuale. Parlavano la stessa lingua, anche se con gradi diversi di sofisticazione e inflessioni gergali definite dalle diversità dei ruoli. Di quel partito, oggi, non c’è più la base materiale. Il Pd tiene in scarsa considerazione l’elaborazione intellettuale perché, come sostiene Biasco, difetta di cultura politica (il chè è vero), ma anche perché, paradossalmente, è quasi interamente composto di ceti medi intellettualizzati. Oggi il gruppo più numeroso che ne articola la rappresentanza nelle assemblee elettive e negli esecutivi è costituito, non per caso (anche se pochi lo sanno) da liberi professionisti e figure con ruolo dirigenziale. Scomparsi per intero operai e lavoratori autonomi, assai ridotti gli impiegati (e fra di loro i pubblici dipendenti la cui fortuna si è fermata agli ’80). Pochi i politici professionali. Un fenomeno che si replica persino nei più piccoli comuni. Quali sono le motivazioni che spingono questi ceti a svolgere gli incarichi politici ? Alcune prosaiche. Per quanto vituperati gli incarichi politici restano ambiti per gli emolumenti e le posizioni di status in essi incorporati. Alcune funzionali. La politica è un ottimo trampolino per allargare il giro di conoscenza di cui ogni libera professione si nutre, specie per chi è alle prime armi. Inoltre in una politica che nella sua componente amministrativa si è molto tecnicizzata i liberi professionisti sono le figure dotate del migliore back-ground per affrontarne le asperità. Altre ragioni sono più nobili. Certamente c’è una spinta valoriale: certe nozioni condivise, ad esempio, relative al cd. ‘bene comune’ e all’impegno civico, un orientamento solidaristico, la motivazione verso mondi associativi che si intende intermediare. Questa, tuttavia, è una Welthanschauung general-generica, leggera, volatile, molto intuitiva e assai poco strutturata, se non tramite qualche luogo comune. Più una psicologia, una mentalità, per quanto radicata, che una cultura. Men che meno ‘politica’. Tale orientamento è infatti tratto in via diretta dall’ambiente di socializzazione, mentre i sistemi di pensiero, gli apparati concettuali, i linguaggi, l’expertise tecnica sono tratti dall’esterno della politica, cioè, essenzialmente dalle istituzioni scolastiche e professionali. Oggi il militante Pd (restando su una scala tipico-ideale, necessariamante estremizzata) è quasi sempre un laureato dotato di master, cosa che ne definisce l’autostima e lo abilita presuntamene alla funzione dirigente. La ‘meritocrazia’, cioè l’ideologia del primato del ‘merito’ è giustamente il suo manifesto programmatico. Perfettamente recepito, del resto, in quella carta fondamentale del Pd che è un puro distillato dell’incontro fra rituali accademici (con la loro enfasi mandarinale) e suggestioni medio-cratiche. I corsi di politica cresciuti un poco ovunque come appendice dei think tank sono assolutamente congrui a questa logica. Master post-universitari frequentando i quali si vorrebbero acquisire, con tanto di attestati, i titoli per concorrere alla distribuzione meritocratica degli incarichi. Da tutto ciò origina la necessaria emancipazione dalla cultura politica (che, a contrario, è una Welthanschauung ‘pesante’, cioè politicamente strutturata) e, assieme, dalla riflessione intellettuale della politica. Inoltre venendo da processi formazione totalmente esterni al partito, ognuna gelosa della sua personale expertise, tali figure sono necessariamente improntate all’individualismo. Un individualismo che potremmo definire idiosincratico e presuntuoso (della serie: “lei non sa chi sono io”) - per opposizione alla prosaica durezza di quello di destra, perfettamente consapevole del momento in cui deve fare ‘gregge’, Perciò il problema che si pone non è quello del rapporto con gli intellettuali, bensì perché un partito così pervaso dalle funzioni intellettuali non è in grado di produrre una elaborazione intellettuale innervata nella politica e capace di arrivare, per questa via, a condizionare il senso comune di chi non è né un intellettuale né un professionista (o semi-professionista) politico. Capace come tale di tessere e ispessire la cultura politica. Il Pd, più prosaicamente, è un partito di intellettuali (tratti dall’economia dei servizi) privo di una cultura politica dotata di solidità e perciò incapace di assegnare un ruolo di rilievo all’elaborazione intellettualizzata della politica. Ciò che si vede del Pd è piuttosto una serie di giustapposizioni: da un lato una babele di ‘residui’ di varie culture politiche defunte, dall’altro un generico orientamento a-ideologico, vagamente valoriale, che nella celebrazione del ‘nuovo’, della ‘modernità’ e della ‘democrazia’ partecipata vorrebbe fungere da mastice dell’insieme. Sotto questo profilo si potrebbe meglio precisare la questione: non è che il Pd è privo di cultura politica, ne ha una molteplicità. Tutte però sono labili. Un vero partito post-moderno – si potrebbe dire. Ma senza le televisioni. Come si esce da questo circolo vizioso ? [beninteso sempre che si avverta questo come un problema, dalla via che non manca chi teorizza l’assoluta irrilevanza, se non l’effetto zavorrante, della cultura politica]. Torniamo al concetto di ‘cultura politica’. Biasco, che è un economista, né da una definizione politologia corretta. Concorrono a definire la cultura politica i vari lati che la compongono: quelli intuitivi e psicologici, quelli espressivi, quelli concettuali e quelli pratico-stilistici (modi di comportamento, etiche del dovere, selezione dell’agenda, formazione dei gruppi dirigenti, assegnazione degli incarichi ecc.). Tuttavia la cultura politica se è tale non si dà allo stato brado, non germina spontaneamente dalla società (civile). Né è pre-confezionata dal ceto degli intellettuali. Essa è un prodotto dei gruppi dirigenti medesimi. Sono essi la sintesi dell’elemento intellettuale e di quello politico. Da ciò consegue il sedimento distintivo rivelatore dell’esistenza di una cultura politica: un modo di approccio, uno stile di comportamento. Se dal basso vengono i sentimenti, dall’alto viene la loro ri-strutturazione come cultura. Ne esce una Welthanschauung, e gli intellettuali avranno il loro posto, come l’ultimo dei militanti alle prese con un ciclostile o con i fornelli di uno stand gastronomico. E qui, in ultima analisi, si vede la vera debolezza del Pd: gruppi dirigenti frammentati e in larga misura inadeguati al compito. Anche perché – è una mia opinione – sfibrati dall’ansia di non perdere la loro posizione, cioè da una sindrome ‘contendente’ ormai entrata in una parossistica dismisura. Perché un coacervo di capi di vario ordine e pezzatura diventi un ‘gruppo dirigente’ capace di palsmare una cultura politica, occorre tempo. L’idea iper-democratica della perfetta sostituibilità dei dirigenti con nuovi venuti estratti in via permanente per via ordalico-elettorale, rende particolarmente nevrotico questo stress da mancanza di tempo. Inoltre tutto si risolve nella pre-selezione. Passando di pre-selezione in pre-selezione, è chiaro, la selezione non verrà mai. Così le cerchie dirigenti, cessano di essere tali ed evaporano in un nebuloso polverone. Nella fase fondativa-rivoluzionaria veltroniana nuove figure hanno scalato (chi essendo cooptato nella confusione generale, chi con autonomo protagonismo) la tolda di comando, rendendola vieppiù affollata. Alcuni di questi non è dato sapere di quali virtù siano portatori, di altri già tende a definirsi un’aura che è tipica degli ‘idiot savant’, alcuni altri sembrano rivelare delle potenzialità. Non hanno affatto sostituito i dirigenti di lunga durata. Si sono piuttosto accompagnati ad essi, ma rivendicando in modo confuso e acrimonioso la propria alterità. Se hanno scalzato qualcuno sono piuttosto gli intellettuali-politici di lungo corso, incrementando perciò il tasso di ignoranza. Insomma il materiale umano è questo. Se esaurita la fase confusionaria-rivoluzionaria, ci sarà un buon termidoro, forse, dal polverone emergerà un gruppo dirigente. Solo allora avremo la nuova ‘cultura politica’.

11 settembre 2009

Cuius regio eius religio


L’affare Boffo segnala qualcosa che non è stato afferrato dai molti commenti. Perché l’affondo di Berlusconi e dei suoi scherani contro il mite esponente del giornalismo cattolico ? Perché questo impietoso squadernamento della debolezza che mina la gerarchia ecclesiastica ? Perché questa pubblica umiliazione di una Chiesa, della quale, pure, si vorrebbe realizzare per intero il programma morale ? E che fino a prova contraria si è proposta come un alleato di rispetto della destra italiana ? Bisogna andare al 1555, Trattato di Augusta. Cuius regio eius religio. Ovvero la religione dei sudditi, nelle diverse regioni, sarà quella imposta dal Principe ivi regnante. La religione di Stato è in realtà null’altro che la religione sottoposta allo Stato. La religione ridotta ad un mezzo dello Stato. Questa evoluzione è implicita nell’ateismo-devoto. Ne è anzi la conclusione inevitabile. L’ateo devoto non crede in alcunché, ma si avvale della forza ordinatrice e unificante dell’etica religiosa. Due debolezze che fanno una forza: un potere politico incapace di trovare in sé la sua legittimazione, una sfera religiosa incapace di imporsi per via autoritativa, e indebolito nel suo stesso campo. Un mondo di convertiti edificato da forze incapaci di convertire, cioè di convincere (con atti di fede adeguati allo scopo). Il concordato ‘materiale’ fra stato e chiesa perorato da Berlusconi è, in fondo, null’altro che una riscrittura del trattato di Augusta, cioè un patto di soggezione della Chiesa al potere politico. E’ il potere politico che si prende in carico la realizzazione del programma etico e funzionale della gerarchia ecclesiatica (dal finanziamento delle scuole cattoliche alla intromissione religiosa nella scuola pubblica, dalla bioetica alla regolazione civile). Di qui una intrinseca e immediata superiorità rispetto alla Chiesa, messa in posizione debitrice, come un ostaggio (mentre era il governo di centro-sinistra piuttosto a essere un ostaggio nelle mani della Chiesa). Berlusconi punisce impudicamente la Chiesa proprio per riaffermare questa acquisita supremazia. E non a caso la Chiesa risponde balbettando/traballando come il pugile che ha subito il Ko. Se devi onorare il debito che ti sei assunto verso di me (Berlusconi) come puoi prenderti il lusso di criticarmi ? Del resto questo dispositivo si era già visto nei periodici misunderstanding fra Lega e Chiesa. La Lega è il tipico partito di atei devoti, che si proclama cristiano per definire il proprio corredo flolkoristico-identitario. Quando la Chiesa ha accentuato le critiche verso la Lega, Bossi non si è ritratto dal minacciare una secessione religiosa, magari verso il protestantesimo. Esattamente come nella pace di Augusta. Non ti va bene la religione del principe ? Emigra ! Tuttavia non bisogna dimenticare che quella pace era intrinsecamente instabile. Infatti ne conseguì la guerra dei trent’anni.

Il Pd e la classe politica 'aspirante'


Seduto al ristorante Alba, scorro le prime quattro pagine di una edizione de l’Unità. Un forum fra donne del Pd sulla questione veline e politica. Fra i vari occhielli attira l’attenzione un icastico: “non siamo interessate ai mariti miliardari !”. I commenti sono corredati da foto di redazione nelle quali sono riprodotte le donne riunite attorno al tavolo: volti intensi segnati da impegno, attenzione, serietà. Soprattutto distinzione culturale. Abbigliamento (per quel che si può vedere) discreto, elegante o casual, come è in uso nella buona borghesia intellettuale. Infatti, leggendo i curricola, si viene a sapere che le discussant sono, nell’ordine: una professoressa alla Columbia University di New York, due deputate e una senatrice del pd con significative esperienze amministrative, una scrittrice di successo, una manager esperta di organizzazione, una direttrice di un Istituto Gramsci. Insomma un gruppo decisamente popular (e chissà quale è lo scaglione di reddito dei rispettivi mariti…). Restando al dibattito i temi di riflessione spaziano dai j’accuse contro il velinismo berlusconiano alla denuncia della degradazione imposta all’immagine femminile. Con tutto ciò che ne consegue per il Pd. Infatti i discorsi scivolano inesorabilmente sui limiti che si frappongono, nel Pd, alla valorizzazione politica delle donne. In effetti il Pd è letteralmente ossessionato, sin dalla nascita (ma anche il Ds terminale non era da meno) dalla promozione di nuove classi dirigenti. Normalmente evocate all’insegna di svariati elementi caratterizzanti. Tutti tratti dall’identità (per quel tanto che è proclamata) assegnata al partito: merito, talento, competenza, expertise professionale maturata fuori dalla politica. Coniugati, a loro volta, in stretta correlazione (anche statistica) con il genere e l’età anagrafica. A ciò sono riconducibili tutte le dibattutissime questioni proceduralistiche volte a regolare la cd. ‘contendibilità’ – ovvero l’agognato avvio di un processo competitivo di mobilità/ricambio politici. L’identikit sociologico che emerge dall’incrocio delle diverse variabili è semplice da individuare: donne e uomini in età giovane-matura dotati di laurea e master, meglio se con un curriculum professionale accreditato o potenzialmente tale. I politici di lungo corso (disprezzati come oligarchie), i funzionari e i politici professionali privi di credenziali sociali proprie costituiscono i nemici ‘interni’ di questo ceto aspirante alla leadership. Lo stereotipo rivale è quello della velina berlusconia: cooptata in base al caso mediatico e alla bellezza fotogenica. Ma anche gli energumeni sociali emergenti dal volgo leghista. Inoltre esso sta in un rapporto di stretta contiguità con i gruppi stimolati dal grilliamo e dal dipietrismo. Fra costoro c’è un comunanza sociale di base. E infatti resta sempre aperta la possibilità di schierarsi, al caso, nell’uno o nell’altro versante del cleavage che oppone il pd alla politica enragé. In effetti il tipo di aspiranti alla classe politica costituisce la cartina di tornasole dei movimenti politici nel momento del loro abbrivio. Tutta la lunga durata, nelle sue varie fasi, del processo di democratizzazione è non altro che il succedersi sulla scena, venendo dal basso o da luoghi negletti alle coalizioni delle èlites dominanti, di nuove aggregazioni socio-politiche. Gli avvocati di campagna furono il perno degli Stati Generali, assieme a commercianti, impiegati, artigiani. I sanculotti erano la sintesi fra la piccola borghesia di nuova formazione, produttiva e intellettuale, e le plebi urbane dedite al lavoro manuale fino allora vissute nel disprezzo aristocratico e curiale dell’Ancièn Regime. Il movimento operaio è stato una straordinaria fucina di quadri estranei all’establishment vigente. Il partito socialista aveva il proprio nerbo dirigente in un peculiare melange: accademici, medici, avvocati, esponenti delle arti liberali di estrazione positivista e di orientamento filantropico, assieme a maestri, piccoli artigiani (i ‘ciabattini’ studiati da Hobsbawn), sindacalisti e organizzatori di cooperative. In una società dove i rappresentati (essenzialmente le plebi rurali) erano quasi sempre analfabeti gli artigiani-filosofi itineranti armati di una fantasiosa cultura autodidattica costituivano un trait-de-union efficace con l’élite borghese ostile alla propria classe. Il movimento cattolico estrasse i propri quadri dal seno delle organizzazioni cattoliche e dalle loro emanazioni sociali: preti di campagna, piccola borghesia rurale, ceti medi. Il fascismo, dopo avere pescato negli enragés del sottoproletariato gli adepti della fase rivoluzionaria, si appoggiò alle classi medie impiegatizie incardinate allo stato. Il Pci fu in grado di produrre una sintesi grandiosa (e irripetibile) fra una vigorosa aristocrazia intellettuale mobilitata dal marxismo e una rete di quadri tratti dal proletariato rurale e urbano direttamente preparati dal partito. Ancora nei ’70-’80 il funzionariato Pci era composto in larga misura dei membri più attivi della classe operaia industriale. Venendo ad epoche a noi vicine (cioè alla fase decadente della democrazia di partito) il Psi craxiano contrappone alla gestione di De Martino, ancora segnata dal vecchio calco storico, una pletora di quadri di estrazione piccolo-borghese e impiegatizia. Generalmente poveri e smaniosi di migliorare il loro status con l’intermediazione politica. Non fosse stato per la rilevanza assunta da questo strato sociale famelico difficilmente avrebbero potuto svilupparsi le forme estreme assunte da tangentopoli. La stessa Dc, del resto, si era precocemente liberata dell’imprinting del cattolicesimo sociale. Divenendo partito-Stato traeva i propri quadri direttamente dallo stato, dal parastato, dal sottogoverno e dalle agenzie economiche (banche e imprese irizzate). In una linea di rinnovata continuità con il fascismo. Forza Italia e la Lega sono stati momenti di novità. Forza Italia riciclando personale del penta-partito in disfacimento, ma soprattutto ponendo al centro una nuova leva di yes-men tratti dalla fininvest e addestrati al multilevel marketing. Il piazzista commerciale, nella sua rinnovata veste post-moderna, è stato un soggetto indubitabilmente nuovo della platea politica. Se l’attuale voga del ‘velinismo’ resta un elemento meramente additivo della classe politica forzitalica (il cui nucleo è composto da un nucleo ristretto di ciambellani del leader e, in periferia, da una varia umanità di berlusconidi tratti dalla classe media) esso è nondimeno emblematico della fase suprema della morfogenesi mediatica. E comunque psicologicamente rilevantissimo, tanto più in una società con i canali di mobilità occlusi. La cooptazione dal basso, proprio nella sua casualità stocastica, mostra la miracolosa possibilità per lo spettatore di passare dall’altra parte del video. Cioè sul palcoscenico. Immedesimandosi nel piazzista, proprio come nel multilevel la torma dei venditori dilettanti si fonde con il coordinatore delle vendite. La Lega, per parte sua, ha promosso una leva di quadri tratti direttamente dalle periferie territoriali: piccole classi medie e popolari con bassa scolarizzazione (dall’artigiano all’amministratore di condominio, dall’operaio al geometra….). La Lega, una volta liberatasi (non a caso) dei pochi e malsopportati esponenti intellettuali, o simili (dal prof. Miglio a Rocchetta), è l’esempio puro di un partito privo totalmente di una leadership intellettuale, la cui assenza è interamente surrogata dal dispotismo del gruppo politico raccolto attorno a Bossi, il quale riassume nella sua persona tanto le funzioni di direzione politica che quelle carismatico-ideologiche (persino liturgiche). In questo senso la Lega è davvero un partito popolare: una via di accesso immediata alla politica per gli individui più paradossali e inesperti. Con il contrappasso, però, di una assoluta sostituibilità (esattamente come avveniva con le purghe staliniane: straordinaria occasione di mobilità sociale per milioni di persone escluse dalla vita pubblica e dagli incarichi statali). Concludiamo. Il Pd sembra perciò proporsi, nella casistica, come il luogo di promozione (o del tentativo di proporsi) di un ceto di borghesia intellettuale post-moderna. Di qui riceve una qualche spinta, specie nei contesti urbani, ma qui si definisce anche il suo limite. Cioè l’assoluta impossibilità di realizzare una congiunzione con gli starti sociali del territorio, realizzando quell’unità di ‘mano/mente’ che fin dall’illuminismo ha caratterizzato i movimenti rivoluzionari e riformatori. Peraltro uno dei limiti di questa neo-borghesia intellettuale è la sua presunzione e la scarsa auto-coscienza dei suoi limiti, che sono numerosi, sia in termini politici che intellettuali. Non è infrequente incrociare nel Pd individui mai visti, con ottimi voti scolastici ma ignoranti quanto presuntuosi.

INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

Come raggiungerci: consulta la mappa

Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)