29 luglio 2009

L'archiviazione dei corvi

Ci sono chicche che non si possono lasciar perdere, come le motivazioni con le quali la Procura bolognese ha archiviato il caso 'corvo' ed annessi. Nella sostanza il 'non luogo a procedere' troverebbe giustificazione nel fatto che i risultati elettorali, sia al primo turno che al ballottaggio, darebbero conto del carattere innocuo della trama ordita da Vannini e soci ai danni di Cazzola con quella grottesca irruzione nel casellario giudiziario. Non sono esperto di sentenze, ma il caso sembrerebbe instaurare una sorprendente e paradossale preminenza della logica induttiva su quella formale deduttiva, della sociologia empirica sul normativismo giuridico. Con il risultato di entrare nella più assoluta opinabilità. Basta considerare la situazione 'a rovescio'. Immaginiamo che al ballottaggio ci fosse andato Guazzaloca e che poi lo avesse anche vinto. Cosa se ne sarebbe dedotto ? Il rinvio a giudizio di Vannini e la sua conseguente condanna ? Peraltro, stando al caso, è ben probabile che un effetto il Vannini l'abbia ottenuto: di penalizzare il suo stesso campione. Ora delle due l'una: o il fatto non sussiste, o il reato non è avvenuto. Nel mio dilettantismo non riesco ad immaginare altra motivazione logicamente sostenibile. A meno di non introdurre, fra le tante attenuanti previste dall'ordinamento, una soluzione drastica che più non si può: l'archiviazione per compassione. Essendosi il reo procurato da sè medesimo la sua pena, non solo perseguendo l'inverso del suo scopo, ma esponendosi al pubblico dileggio per manifesta imperizia e goffaggine. In conclusione questo mi sembra un caso nel quale l'inquisito ha trovato il suo 'giudice naturale'. Grottesca iniziativa, grottesca archiviazione. Nel Bolokistan sia ama molto scherzare. Una pacca e via....

27 luglio 2009

il partito degli aggettivi

Il Partito degli aggettivi (26 Luglio 2009) Ormai asceso a una levità letteralmente celestiale, dove contrastano, come in una tela del Reni, lapislazzuli vestimentari, cirri e nembi cumuliformi, filtrati dalle più varie luci del giorno, toni e nuances per tutti i palati. Un partito, letteralmente soprannumerario, dove ogni cosa è riconducibile a una questione di stile, o di gusto. Per sua natura indecicidibile. E perciò sempiternamente 'contendibile'. Perfetto per una partito che applica la democrazia a sè stesso con una pignoleria degna della corte dei conti. Facciamo due esempi a caso. La Bastico esordisce in gara affermando che è per un 'partito accogliente', mentre il suo contendente è per un 'partito combattente'. Leggendo fra le righe sembra poi di capire che il partito accogliente inclina al femminile, è aperto e adotta il 'per' anzichè il 'contro'. Si potrebbe anche aggiunere che è liscio (comunque gassato il giusto, come la Ferrarelle), mentre l'altro è scabroso, rotondo anzichè irto, colorato invece che grigio, temperato (come un clavicembalo) anzichè rigido (come una grancassa), ecc. ecc. ecc. Sabattini (tanto per chiarire che anche nei dintorni non s'è da meno) se la prende coi sindaci che volevano contestare Maroni all'atto di prendere per le mani l'organo Hammond in quel del Porretta Soul Festival. Del tutto in secondo piano la questione di merito: i vincoli del patto di stabilità che impediscono ai comuni di investire ciò che hanno in cassa. Ciò che appare - e che alla fine conta per lo sprovveduto osservatore - è una querelle intestina, dove è in gioco una questione di stile: quale sia il comportamento da tenere nei rapporti inter-istituzionali e quale posa i primi cittadini debbano assumere una volta indossata la fascia tricolore.... Le differenze sono una ricchezza. Come non essere d'accordo con una frase che è diventata segno di buona educazione ? Sino a non molto tempo orsono si diceva che stava prendendo piede il malvezzo della 'personalizzazione politica', cioè la tendenza a soggettivizzare i contrasti politici. Ormai è chiaro, invece, che si è transitati a una nuova fase, nella quale, sono piuttosto i contrasti personali che si politicizzano. Cuius regio (o aspirante tale) eius religio. I quali contrasti possono darsi, in linea di massima, secondo due varianti. In un caso come una faida barbaricina (senza volere insinuare nulla a proposito di Arturo Parisi, solo perchè è di Sassari): un odio ancestrale destinato a non placarsi mai. Necessariamente con ampio versamento di sangue. Nell'altro caso come una differenziazione chiaroscurale, come in un concorso canoro. In un caso sono in gioco questioni di sangue e parentela. Il conflitto deve sempre restituire l'idea drammatica che possa finire con decapitazioni e garrotature. Nell'altro sono in campo questioni di stile. Un torneo di aggettivazioni, dove conta l'estetica schermistica e nel duello ci si ferma al primo graffio (chiedendo anche scusa). A parte queste differenze, comunque non da poco, c'è qualcosa che accomuna le due varianti e che ci rinfranca. In entrambi i tipi di conflitto nessuno dall'altro vuole (può) separarsi. Chi ama la faida (cioè la lama) non può immaginare un mondo che ne sia privo, senza più nessuno nel quale piantare il ferro. Sono un emblema di questa situazione D'Alema e Veltroni. Potreste mai immaginare un luogo nel quale i due non duellino ? Ve li immaginate davvero separati o ridotti al silenzio ? Chi ama la scherma (cioè le aggettivazioni differenzianti e chiaroscurali, la veronica anzichè l'affondo) per definizione non può darsi se con nell'immanenza comparativa inter-soggettiva. Perciò la scissione è scongiurata. Mentre ci sarebbe da temere se i contrasti fossero davvero di linea politica, se non di cultura politica. In estrema sintesi: sembra che il partito degli aggettivi sia, nella sua paradossale e volatile contingenza, il prezzo necessario da pagare per stare insieme. Seguendo la falsariga un ulteriore commento. Bersani, a favore del quale ho fatto outing discettando sulla Lega, afferma che questo sarà quel congresso fondativo del Pd che sino adesso non c'è stato [e subito Mauro Zani, sul suo blog, ha tratto spunto per segnalare che qualcun'altro, cioè lui stesso, a suo tempo, l'aveva già detto]. Osservazione incontestabile. Il Pd è nato da una primaria, meglio da una primipara, senza alcun travaglio, nè una levatrice congressuale a seguire l'iter del parto. [a pensar meglio c'è anche da dubitare che nel concepimento sia intervenuta l'inseminazione di un membro virile, cioè un padre-capostipite fondatore, non è da escludere un caso di partenogenesi, magari con l'ausilio dello spirito santo...]. Potremmo anche aggiungere, cambiando metafora [sono in linea: nel 'partito degli aggettivi', una inesausta metaforologia è il mezzo corrente di comunicazione...], che la 'fusione' è avvenuta su due piani: dall'alto, per plebiscitazione del leader; dal basso, per certosina composizione del puzzle Ds-Dl. Come molti hanno detto, è stata una fusione 'fredda', malgrado il caldo entusiamo dei partecipanti. Ora, mi sentirei di dubitare che questo congresso sia davvero 'fondativo'. Almeno nel senso che un tempo si attribuiva al termine e secondo note fenomenologie: un consesso di delegati, cioè di rappresentanti di qualcosa che li trascende, che si ritrova in un luogo (magari dopo essere appena usciti da un altro, come nelle fondazioni 'per scissione')e approva un progetto meta-storico, fra alte grida di giubilo e in un clima euforico composto di speranze radiose e di determinazione combattente. Perchè ? Perchè la fondazione è già avvenuta, nel bene come nel male. Il partito degli aggettivi è già, nella sua versatile leggerezza, la plastica testimonianza di un insieme di legami e inviluppi dai quali è molto difficile dissociarsi. Siccome sono state bruciate le navi e fatti saltare i ponti appena guadati, non è più possibile tornare indietro. Fatto positivo [mentre altra cosa è fare terra bruciata davanti a sè, cosa nella quale, anche, il nuovo partito si è ben impegnato sino ad ora]. Si potranno aggiungere compendi retorici. Dettagli comunque, per quanto recitati con grande trasporto. Però questo congresso sarà fondativo in un senso particolare: ratificherà una mutazione già avvenuta. Sarà un partito di personalità politiche, cioè una oligarchia di capicorrente. Non il risultato di una giustapposizione di due corpi solidi, quali erano i partiti di provenienza, ma la ri-composizione di una scomposizione per vie personalistiche. Sarà cioè, finalmente, una 'fusione calda', per frantumazione degli atomi originari. Basta guardare gli schieramenti in campo. Bindi, Prodi, Letta con Bersani, assieme a D'Alema. Fassino, Cofferati, Rutelli e Marini, con Franceschini, assieme a Veltroni. Disposizioni situazionali, perciò reversibili. Infatti molti di coloro che adesso stanno sulla stessa cordata, prima erano fieramente contrapposti. E viceversa. La cosa può non piacere, ma è difficile che un partito 'democratico' abbia altra forma. Oggi un partito carismatico è impossibile senza un leader che abbia anche i soldi per imporsi come tale. Ci sono, è vero, partiti uni-personali (come l'Idv) ma la loro esistenza è effimera. Il partito iper-democratico, basato renaniamente su un permanente plebiscito, quale intendeva essere il Pd, è crollato miseramente qualche mese orsono. Conviene fare di necessità virtù, cioè essere realisticamente democratici.
 
   
 

Note pre-congressuali

(di Fausto Anderlini)

 

Premessa: ho scritto queste note subito dopo le elezioni di Giugno. Dovevano servire, valgliate da altri, per un ipotetico documento di discussione da inoltrare in una riunione di "Fare un forum per uscire dal cul de sac". Una copia l'ha avuta Virginio Merola, che poi ne fa anche fatto un uso appropriato in alcuni suoi interventi.

 

Falsi problemi

 

Il dibattito congressuale deve innanzitutto stabilire una chiara gerarchia di problemi.

Fondamentale, per perseguire lo scopo, è liberarsi dalle scorie di un dibattito sterile e recriminatorio, sovente preda di dietrologie personalistiche.

 

E’ bene chiarire subito che il governo Prodi non è caduto per l’improvvida nascita del Pd e men che meno per una cospirazione di gruppi dirigenti. L’accelerazione nella costituzione del Pd era necessitata dalla crisi profonda (e irrimediabile) nella quale era rapidamente sprofondato il governo dell’Unione. Semmai essa ha salvaguardato i partiti costituenti, come dimostrato dal 33 % guadagnato nelle elezioni del 2008, da una diaspora che avrebbe potuto essere devastante. 

 

Allo stesso tempo sarebbe fuorviante addebitare l’autodafè di Veltroni alla sola pressione di oligarchie invidiose (del 33 % e della straordinaria prova mobilitante del Circo Massimo). Ci sono varie ragioni. Alcune fisiologiche: la naturale decompressione dopo una campagna vissuta all’insegna di una grande spinta rigenerativa e costituente, con la conseguenza di un vittorioso redde rationem nel centro-sinistra, ma anche di una sconfitta di schieramento che ha subito messo in risalto l’isolamento del Pd. Il Pd è rimasto pericolosamente incerto circa il profilo oppositivo da assumere, scontando la persistenza di un centro moderato (l’Udc, verso cui sono confluiti voti dell’Ulivo, a compensazione dei flussi in ingresso dalla sinistra radicale) e la compresenza di un alleato infido e sfidante come l’Idv. Altre ragioni sono da ricercare nella tumultuosa convergenza  di alcune situazioni critiche: dalla questione morale apertasi in seguito a diverse, e confuse, azioni inquirenti in varie zone del paese, alle crisi rovinose dell’Abruzzo e della Sardegna. Ci sono tuttavia altre ragioni ben più profonde: in primis l’irrisolta configurazione organizzativa del partito e l’indefinitezza del profilo identitario. Non è un caso che a fare da detonatore di questo groviglio di situazioni sia stata la vicenda Englaro. Essa ha messo a nudo un’afasia che aveva la sua causa in una mancata sintesi culturale a proposito del rapporto fra la laicità della politica e lo statuto pubblico delle credenze religiose. Dunque, fra l’altro, un problema di identità. 

 

In effetti, rebus sic stantibus, cioè la persistente condizione di friabilità dei presupposti identitari ed organizzativi del partito, le periodiche crisi di gruppo dirigente sono destinate ad essere una costante della vita politica nello schieramento riformista. Con una nevrotica e occasionale alternanza, nel reggimento politico, di momenti pluralistico-consensuali e forzature di segno monocratico. Le ragioni per le quali i diversi leaders sono stati triturati con grande rapidità non ha a che vedere (almeno non solo) con l’antropologia endemicamente personalistica della sinistra, bensì    con la labilità dei fondamenti costitutivi dei soggetti che hanno attraversato questo ventennio per poi convenire nel Pd.

 

Il problema del Pd è perciò la compiuta definizione del suo profilo identitario: quali sono i valori fondamentali che lo innervano, di quale progetto di riforma è portatore, quali soggetti sociali vuole rappresentare (e quali contrastare), da quale storia proviene, attraverso quali forme organizza la partecipazione politica.

 

Questi aspetti dirimenti non possono essere surrogati, come è stato fino ad oggi, da scorciatoie organizzative o politologiche.

Ad un certo punto, in mancanza di ogni altro riferimento o nella labilità più assoluta degli orientamenti, è sembrato che l’identità del partito si potesse riassumere nel ruolo taumaturgico affidato a una procedura di selezione della leadership (le primarie). Un partito che affermava la sua democraticità applicandola a sé stesso, in via autistica, con una enfatica e paradossale sottolineatura della ‘contendibilità’ della leadership. Naturalmente le primarie in sé sono un importante momento di democrazia ‘elettorale’, ma i risultati possono essere anche gravemente controproducenti se difettano le strutture di ‘lealtà’, il cui spessore rinvia, come ovvio, a problematiche identitarie sostanziali, per nulla procedurali.

 

Per contro anche il dibattito che vede opporsi una vision coalizionale del Pd ad una mission maggioritaria dello stesso, rischia di assumere una impropria valenza ideologico-identitaria. Ancora un surrogato politologico, a fare le veci di un assente legame identitario. Se con orientamento ‘maggioritario’ si intende la rivendicazione di una pretesa egemonica, è evidente che tale vocazione è una condizione imprescindibile per un partito che non voglia ridursi a un meschino traccheggiamento. L’idea di rimettere in piedi a forza una riedizione dell’Unione, tanto più dopo il clamoroso fallimento del governo Prodi, è paradossale. Cosiccome quella di resuscitare l’Ulivo. Il Pd è il compimento dell’Ulivo e non si vede quale ratio sostenga una visione karmica (o chimico-alchemica: liquido-gassosa) nella quale il Pd dovrebbe periodicamente ri-disciogliersi nel suo ‘brodo primordiale’, per poi ricostituirsi, e nuovamente sciogliersi…. Nello stesso tempo è evidente che la vocazione maggioritaria deve comunque fare i conti con la realtà, nella quale la coalizione, ovvero una politica delle alleanze, può essere non solo necessaria, ma anche desiderabile. Non può cioè degradare a una forma autistica e, al limite, delirante. Nel fare coalizione sarebbe già molto, se non tutto, riuscire a posizionare il Pd come un pivot indiscutibile, cioè maggioritario. Nel 2006, infatti, tale pivot mancava: sinistra radicale, Ds, Dl e centristi erano raggruppamenti di peso simile. Di qui una intrinseca instabilità politica. A maggior ragione in presenza di un premier coalizionale, senza un partito alle spalle, necessariamente debole. E’ vero che per due volte è riuscito il ‘colpo’ (nel ’96 e nel 2006), ma non ci sarà una terza volta.

 

Analoghi argomenti possono essere avanzati a proposito dell’orientamento in materia di legge elettorale. A prescindere dal fatto che tale materia, allo stato attuale delle cose (circostanza verificata anche dal freschissimo fallimento referendario) è diventata indisponibile per altri che non sia la maggioranza parlamentare vigente, l’identità del partito non può certo definirsi per rapporto ai pregi/difetti di un modello elettorale: se proporzionalistico, maggioritario o comunque bipolare. Così si rischia di transitare dal procedure alle formule. Il pregiudizio politolologistico, cioè la pretesa di far discendere la configurazione dei soggetti politici in via diretta dal sistema istituzionale/elettorale, è stato una maledizione che ci ha accompagnato per quasi un ventennio. Quale che sia il sistema elettorale  il Pd deve essere sé stesso. Bisogna distinguere fra un bipolarismo formale (o coattivo) e un bipolarismo sostanziale. E’ a quest’ultimo che bisogna tendere, quale che siano le cornici legislative.

 

 

Fare un discorso chiaro sull’uguaglianza

 

Ci sono tre nozioni dell’uguaglianza: della dignità, del reddito, delle chances. Bisogna riconoscere che il programma fondamentale del Pd, con il suo squilibrio sulla nozione radico-liberale, è una fonte di confusione. Senza una limitazione delle sperequazioni, cioè senza redistribuzione, le pari opportunità sono solo retorica. Un partito a servizio di chi ha il dono del talento ? Un partito ‘meritocratico’ ? Talento e merito si remunerano in sé. Decisivo è stabilire se si remunerano anche ‘per sé’, incrementando la differenziazione. Ovvero se sono posti a servizio del legame e della responsabilità sociale. Oggi in realtà rischiamo di essere prigionieri di una visione scolastica della meritocrazia e dell’individualismo, mentre il capitalismo mediatico ha elaborato una pratica stocastica della ‘fortuna’ capace di sedurre (come il lotto e San Gennaro) una plebe instupidita. Thomas Geiger parlava di ‘Individuo-massa’. Si tratta di passare all’individuo sociale, che realizza socialmente la sua individualità. Neppure il merito al servizio del bisogno secondo la sbrigativa formula del modernismo catto-socialista degli ’80, una visione, cioè caritatevole e oblativa del merito, bensì la promozione sociale delle possibilità di crescita individuale insite in ogni individuo. Il Pd non può finire identificato come un canale di promozione dell’élite, bypassando il cordone

storico con le lotte secolari per l’emancipazione.

Se è vero che siamo entrati in una fase di crisi di taluni dei fondamenti del capitalismo globalizzato (il limite ambientale, il consumo a debito, una inaudita sperequazione della ricchezza, la predazione finanziaria, l’esautoramento della democrazia); se è vero che va determinata una riconversione dalla crescita allo sviluppo, cioè un riorientamento dei fini e delle modalità del processo di accumulazione; se è vero che questa transizione sarà convulsa, drammatica, per nulla instradata lungo l’irenico percorso dello stato stazionario e della decrescita, bensì lastricata di catastrofi naturali (ed umanitarie), fondamentalismi, tentativi autoritari, conflitti identitari caricati di inaudito rancore; se è vero, per quanto ci riguarda da vicino, che il regime post-democratico sarà di lungo periodo, almeno se sarà lasciato libero di agire incontrastato 

allora diventa fondamentale affermare la propria identità: chi siamo e da dove veniamo, dove vogliamo andare, verso quale modello di società, con quali soggetti di riferimento.

 

Occorre perciò tornare sul ‘programma fondamentale’, arricchendolo di contenuti più densi democratici, socialisti e comunitari. Portare alla luce le radici mnemoniche profonde delle culture riformiste, il timos di lunga durata del processo umano di emancipazione. Di quale pretesa di risarcimento il Pd vuole essere il testimone ? Quale ‘rabbia’ intende raccogliere nel proprio motore per sostenerne la spinta orientata al futuro ?

 

Assumere in ‘interiore homine’ questa necessità significa affrontare da un punto di vista sostanziale il problema della rappresentanza e del gruppo dirigente. Oggi la classe politica è fatta segno di un discredito generalizzato, e naturalmente la più colpita è la sinistra, proprio perché per essa il tema della rappresentanza, con in suoi correlati etici, ha una rilevanza che è sconosciuta alla destra. Bisogna dire la verità. Oggi siamo in una fase nella quale la classe politica (e gli aspiranti a farne parte, tanto più quando vorrebbero essere spressione di una società civile incontaminata) più che ‘rappresentare’ tende a ‘ripresentare’, meglio a ‘ripresentarsi’. Ma rappresentare vuol dire innanzitutto ‘mettersi nei panni’ dei rappresentati, incarnarne la condizione esistenziale, sia materiale che espressiva. Ed anche ‘raccontare storie’, nelle quali le persone possano riconoscersi, perché le riguardano. Non ogni storia, ovvero ‘storielle’, bensì quelle inscritte nell’ansia umana per la libertà, l’emancipazione, la realizzazione, l’eguaglianza. Esattamente come sanno fare i grandi attori, i quali sanno immedesimarsi, materialmente e psicologicamente, nei soggetti.  Non è una questione di reddito (anche se ha una sua parte), ma una questione di ‘stile’. Come fa un partito identitario, cioè di valori e ideali, non di meri interessi cetuali, a non avere un suo stile ?

 

Il Pd ha un problema di classe dirigente ben più sostanziale di quello esibito dalle pantomime e dalle baruffe che vorrebbero opporre oligarchie (e gerontocrazie) a rivoluzioni generazionali di improbabili giovani turchi. Occorre definire con precisione lo stile (il gentleman democratico, l’unica aristocrazia legittimata). Quindi legare la promozione di una nuova classe politica a un investimento di lunga durata, avente innanzitutto nel partito il suo centro di gravitazione. Quadri giovani, certo !, ma che spendano almeno dieci anni della loro vita nel processo di costruzione/radicamento del partito. Non di raiders che profittano delle primarie come fossero un ottovolante, una giostra, dove chiunque ha una fiche, a prescindere da ogni altro valore, può mettere a segno con un colpo fortunato la propria aspirazione a entrare in una classe politica (peraltro detestata sino a un attimo prima).

 

Quale blocco sociale

 

Nelle elezioni del 2008 il Pd ha sfondato nelle città e nei grandi ambienti urbani in genere. La sua proposta ha intercettato l’attenzione di molti ceti urbani, anche dell’iper-terziario. E’ inesatta la rappresentazione caricaturale di un Pd partito del ‘pubblico impiego’. Non c’è dubbio che il Pd (specie alla luce della strepitosa campagna condotta da Veltroni) ha saputo interpretare elementi strategici di modernità sociale. Però ha subito una sconfitta altrettanto pregante nei territori, negli ambiti provinciali e nelle stesse periferie urbane. Ha cioè subito la penetrazione della destra non solo nel ‘lavoro autonomo’, ma anche in vasti strati popolari. Dati alla mano si può dimostrare come il Pd ha non solo realizzato una performance limitata presso gli operai (problema di data non recente), ma ha subito una violenta inflessione (soprattutto) presso il lavoro precario.

Questo dualismo si è replicato (aggravandosi) nelle recenti elezioni europee e amministrative. Il Pd ‘tiene’ (con fatica) le realtà urbane over 15.000 (anche nel nord-est), ma cede clamorosamente nel territorio. Anche in Emilia-Romagna (ma anche in parti delle Marche e della Toscana) la Lega ha dilagato, talchè essa è oggi una forza non più volatile, bensì radicata nel territorio. In questo spostamento a destra dei ceti popolari (e delle popolazioni territoriali) giocano circostanze note: il big-push dell’immigrazione e l’insicurezza, enfatizzate, anziché lenite, dall’insicurezza economica e dalla prospettiva di un benessere non solo minacciato, ma effettivamente decrescente. Ma la destra ha potuto penetrare con tanta più facilità non trovando una adeguata potenza territoriale (quindi socio-culturale) della sinistra a fronteggiarla.

 

Eppure questo è il problema sociale e programmatico del Pd: unire i ceti moderni che chiedono spazio e protagonismo ai ceti popolari (tradizionali o di nuovo conio) che chiedono rassicurazione  e redistribuzione delle chances sociali. Offrendo una identità che faccia da collante alle differenze.

 

Di questo il Pd ha pagato dazio: di porsi come un partito socialmente disinsediato, che recide radici e contatti con mondi sociali per involarsi in un progetto di modernizzazione totus politicus. Un riformismo senza sostegno sociale (senza popolo), come si è evinto nelle due esperienze di governo (e dal quale Reichlin ha più volte messo in guardia).

 

Leggero/pesante

 

O altrimenti detto volatile o insediato. Antinomia ferale. Perché di entrambi ci sarebbe bisogno, in una possibile coesistenza o, se possibile, in una sintesi innovativa. Un partito capace di reggere la sfida delle periferie territoriali (rese ancora più vaste, come plaghe, dalle gerarchie create dalla globalizzazione) affondandovi le proprie radici, e nello stesso tempo agile al punto di allargare senza remore le posizioni nei centri urbani. La risoluzione del dilemma organizzativo è tutt’uno con quella del blocco sociale. Un partito capace di dialogare (e di offrirsi come canale di promozione) con la neo-borghesia post-moderna, ma con le radici (e un programma) ben saldi nelle classi popolari. Di questo duplice fronte sono del resto una icastica esemplificazione le sfide elettorali sofferte dal Pd: la Lega sul territorio, Idv, grillisti, ma anche liste civiche sparse un poco ovunque nelle realtà comunali. Ovvero: la propria scarsa affidabilità sul territorio, e la scarsa affidabilità delle aggregazioni critiche post-moderne nei centri urbani. Per andare incontro agli uni non si possono tralasciare gli altri. C’è una differenza radicale fra il capitale sociale di derivazione storica (come sindacati e cooperative), che ha nel partito il proprio fondamentale supporto ideologico-politico, dal quale discendono cospicui riscontri fiduciari (sia negli ‘altri’ che nelle istituzioni), e il capitale fortemente ‘individualizzato’ su aggregazioni civiche, professionali o comitatistiche. Il quale ultimo ha nella sfiducia programmatica e nel rifiuto della delega il proprio motore. Se quest’ultimo non può non essere considerato come oggetto di attenzione, è anche vero che se si abbandona il primo non si va da nessuna parte, se non all’inferno. Ma questo è un tema dirimente per il discorso sull’Emilia-Romagna.

 

Vero è, parafrasando il motto faustiano, che se due anime albergano nel cuore del Pd, nessuna dall’altra si deve separare, anche se lo vogliono.  Diciamola così: dopo aver fatto un passo avanti, con la prima performance cositutiva del Pd, e senza negarne il significato innovatore, occorre fare due passi indietro. Occorre cioè liberarsi dell’aura illusionistica del ‘partito liquido’, per tornare a radicare sul territorio una ‘organizzazione’. Pure in una necessaria pluralità di modelli territoriali, lavorare a un partito socialmente e territorialmente insediato. Democratico ma agguerrito. Passare da una fase entropica e implosiva, a una fase orientata dall’accumulo di energia. Capace di reggere in un periodo storico che sarà prolungato e convulso. A chi pensa che questa possa essere una ‘restaurazione’ si può opporre la considerazione (puramente difensiva) che nulla del passato può essere re-instaurato. Ma si può anche avanzare l’ipotesi (più volte verificata nella storia) che spesso le vie dell’innovazione (e del futuro) si aprono anche andando idealmente a ritroso. D’altro canto non prende forse corpo la ‘riforma’, proprio nei suoi risultati inediti e inattesi, da un tentativo apparentemente patetico di ripristinare qualcosa che è andato snaturandosi ?

 

 

Il Pd in Emilia-Romagna.

 

Il modello social-democratico era composto di vari elementi: economia sociale cooperativa, sindacato territorializzato, welfare locale, piccole imprese e loro articolazioni categoriali. Tenute insieme da un partito, ovvero dal primato della politica. Il Pd è sorto come tentativo di fusione fra questo corpo politico-sociale e le esperienze, assai più frammentate, del cattolicesimo sociale e del dossettismo in particolare. Il problema è che la fusione (fredda o calda che sia stata) è avvenuta attraverso una vera e propria rimozione mnemonica e lessicale. Un partito né socialista, né cattolico-democratico. Senza una identità. E alla fine senza neppure il rispetto delle proporzioni. Se è vero che il modello della socialdemocrazia emiliana era da tempo compiuto e insidiato da  problematiche ‘sfidanti’, è altresì vero che le innovazioni avrebbero dovuto incidere su quel corpo, riformandolo, non porsi al di là di esso. Di qui una pericolosa decomposizione dei ‘residui’ in un contesto di ‘evaporazione’ politica. Una politica volatile  basata su pratiche teatralizzate di formazione di leadership intrinsecamente ‘leggere’ e ‘liquide’, si è sovrapposta alla frammentazione del corpo solido del passato. Il rischio di una radicale incoerenza è alle porte.

 

Ora è vero che la classe amministrante non può surrogare il partito territoriale, tanto più quando originante da processi di selezione altamente stocastici. Nello stesso tempo il network del capitale sociale non può creare da sé ‘coesione sociale’. Senza la mediazione del partito politico – un partito innervato nella società, non un mero ‘comitato elettorale’ pluri-localizzato – il sistema del capitale sociale non può originare la ‘fiducia’. Se il Pd perde primato e capacità egemonici, sindacati e cooperative non reggeranno a lungo a tendenze decompositive, particolaristiche e corporative.

 

Il Pd in emilia-romagna è la congiunzione fra una storia quantitativamente prevalente – quella inscritta nel modello social-democratico – e una storia qualitativamente rilevante – il comunitarismo di matrice cristiana. Queste storie hanno alle spalle una potenza e un radicamento senza la quale non si può andare verso il futuro. Nello stesso tempo sono storie peculiari a questa regione, non ritrovabili altrove (almeno nelle stesse forme e con la stessa intensità). Sono il perno dell’identità del Pd emiliano-romagnolo, cioè della stessa identità regionale/territoriale. Per essere più precisi: se è vero che tutte le culture riformatrici hanno pari dignità è altresì vero che il loro peso è variabile. Il comunitarismo cristiano è una forza vitale che può essere sintetizzata nel calco prevalente del blocco social-democratico e nella sua costituzione laica. Ma l’innesto non può avere successo se questo stesso blocco non avvia una propria interna auto-riforma, trovando nel dispiegamento di una piena democrazia sociale una nuova spinta capace di trarlo dai rischi del burocratismo e del corporativismo. Ritrovando, in sintesi, la forza delle proprie radici, ravvivando il fascino di una Welthanscauung in parte degradata a rendita di potere. Come ? Basta pensare a come la cooperazione sociale può essere reinventata, ad esmpio, a proposito del lavoro precario.

 

Il modello federale, se ha una prospettiva parte da qui. Non da discentramenti procedurali, bensì dalla rivendicazione di una identità propria nella più vasta identità nazionale del Pd. E neppure da improvvisate esumazioni di geo-politiche improvvisate: come un ‘partito del nord’, un ‘lombardo-veneto’, un’Italia etrusco-appenninica e così via. Le Italie, come disvelano per l’ennesima volta le elezioni, sono due: centro-nord e centro-sud. Al di sotto di queste stanno i modelli regionali. L’Emilia è una regione del nord, ma con una propria distintività e cultura. La quale va aggiornata, ma sempre nei termini di una ‘grande narrazione’. Non vorremo certo che arrivi qualcuno da fuori a rivendicare qualcosa che è andato dimenticato, facendola propria e degradandola !

 

 

 
 
 

INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

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Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)