18 dicembre 2009

Ostensione e martirizzazione. Criminalizzazione vs. pacificazione


Quale sarà la piega degli eventi si vedrà. Per adesso è ovvio che la destra userà fin dove possibile l’occasione per spianare la strada allo sbrago costituzionale. Su questo spartito – ovvero l’occasione offerta su un piatto d’argento di instillare nella politica italiana qualche dose suppletiva di ‘stato d’eccezione’ - la vittimizzazione acrimoniosa, alternata alle minacce e alla sicumera, con annessa criminalizzazione, è un dispositivo largamente collaudato.


Da un punto di vista strettamente oggettivo, malgrado il gran parlare attorno a una imminente ‘guerra civile’ e al clima psicologico e semantico che starebbe preparandola, nella dinamica dell’evento non c’è alcuna connessione più che casuale. Casuale è la ragione che porta Tartaglia a vagabondare fra quella folla dove si accalcano un nutrito gruppo di seguaci del ‘capo’ e un manipolo di contestatori vocianti e saltellanti come in tantissime altre occasioni. Il Tartaglia è descritto come uno psicolabile sostanzialmente innocuo e pacifico. Risulta presente sulla scena senza alcuna premeditazione razionale, se non una voce interiore che lo sprona a ‘fare qualcosa’. Si aggira per diverso tempo fra gli astanti, fino a quando si trova miracolosamente a tiro la faccia di Berlusconi. Il suo braccio, come si vede nelle immagini, prima di abbattersi sul predestinato brancola per diverso tempo per aria senza che i pretoriani privati del Premier se ne accorgano (comprova di conclamata inefficienza). L’arma del delitto è, in sé, un innocuo souvenir (gli americani, sempre morbosamente interessati a ogni tipo di arma od oggetto balistico, lo hanno descritto con comico dettagliamento…). Un oggetto banale, il primo che si propone casualmente alla portata. Perfettamente isomorfo all’animo di Tartaglia: un ‘semplice’ a tutti gli effetti. Si deve forse a questa convergenza – una ‘cosa’ nelle mani di un ‘semplice’ che il destino porta semplicemente in quel luogo - in una di quelle improvvise sospensioni di tempo che governano l’imprevedibile e catastrofica ‘sincronicità’ del ‘caso’, se l’oggetto contundente viene precipitato sul viso di Berlusconi come carico di una inquietante forza metafisica. Quasi che la mano del Tartaglia fosse stata armata da una misteriosa energia profetica: divina, o più probabilmente demoniaca. L’oggetto – il Duomo di Milano con annessa Madunina – è ‘scagliato’, e dall’alto, non ‘tirato via’ secondo una normale parabola come fu nel caso del trepiede lanciato a suo tempo dall’edile mantovano con goliardica leggerezza. La mente di Tartaglia è vuota e inconsapevole, come baci e autografi che profluviano intorno all’uomo del destino alla ricerca di taumaturgici riconoscimenti. E’ il braccio che vorrebbe rendere chissà quale giustizia. O il battito d’ali che all’altro lato del pianeta fa da viatico a una catastrofica precipitazione. Per quanto censurata e condannata, la violenza è sempre levatrice di qualcosa. Infatti…. Berlusconi rimane stordito, ma subito, in via del tutto automatica (segno di una premeditazione a lungo coltivata), il corpo prende a muoversi secondo un canovaccio ben preordinato. Anziché ritirare il volto dietro le mani, anziché inibire al sangue di spandersi, anziché piegarsi cercando riparo e soccorso, anziché darsi una ragione di ciò che accade…egli cerca di elevarsi, smaniando, sulle spalle di chi gli sta attorno. Sembra quasi arrampicarsi, mentre cerca (e trova, per un attimo) il noto ‘predellino’. Il movente immediato è quello dell’ostensione, tanto che la scena sembra ricordare, nella sua concitata improvvisazione, l’ostensione a Kabul, davanti ai Talebani muniti di motociclette, del manto insanguinato di Alì ad opera del Mullah Omar. Gli occhi di Berlusconi sono spiritati e sgomenti. Egli è letteralmente stupefatto e impaurito dalla forza lapidaria che si è abbattuta sul suo corpo (ed è noto quanto questo body sia importante nella sublimazione mediatica). Cionondimeno – carpe diem, in questo egli è veramente maestro impareggiabile - trova subito modo di cogliere l’occasione di una ‘rappresentazione’ del tutto straordinaria. Il martirio – evocato in innumerevoli episodi come il risultato di potenze anonime e macchinose (la magistratura, la stampa, i comunisti ecc. ecc.) - appare infine fisicamente visibile. Più che cromatico. Letteralmente ematico. Alla pretesa di Giustizia del braccio di Tartaglia, la pretesa del Giusto quale si vede nelle stimmate fresche di sangue stampate sul volto di Berlusconi.

Non credo che da queste due pretese ‘giustizie’ verrà alcun seguito pratico: almeno come replicazione o smodata periclitazione del paese nella guerra civile. La trama della politica è disegnata da tempo e seguirà il suo corso. Più o meno rapido, determinato o incerto, secondo gli sviluppi che dal ‘fatto’ origineranno. L’azione in sé non avrà– considerata la sua casuale unicità- alcuna replica. Si tratta di vedere piuttosto, in questo ambito, quale sarà la piega della ‘reazione’. Certo ci sarà la criminalizzazione. La destra è esperta come pochi nel profittare delle sciagure. Nel trarre plusvalore dalla confusione. Tuttavia si tratta di vedere se l’ostensione, così repentinamente colta, perseguirà tutti significati voluti. Cioè come il sangue e quegli occhi spiritati di un uomo che si arrampica sulla calca, reagiranno nel medio periodo sul corpo mediatico del premier. L’unico corpo cui i seguaci sono stati sino ad ora abituati. Il Berlusconi che esce dall’ospedale è più che umano: un uomo ultrassettantenne tumefatto. Che ha subito una violenza ad opera di un altro uomo. Ben lungi dal ‘forever young’ celebrato da Scapagnini. Una esperienza i cui esiti psicologici sono tutt’altro che prevedibili. Questi accadimenti – un incidente, una malattia, un grave rovescio, un trauma corposo – sono sempre forieri di alterazioni e mutamenti. Tanto più in una personalità prettamente ‘intuitiva’ quale quella di Berlusconi. Dal colpo subito egli potrebbe uscire rafforzando un ego smisurato e la sua natura impulsivamente aggressiva. Oppure potrebbe prendere distanza dal suo sé, piegandosi in ireniche riflessioni. I due partiti che si sono immantinenti formati nello spazio politico - falchi e colombe (su entrambi i lati dello schieramento) – restituiscono plasticamente tali, opposti, sviluppi.

Qui, davanti a questa quadripartizione dello spazio politico, sdoppiato su entrambi i lati fra falchi e colombe - c’è l’occasione per segnalare, pure di sfuggita, la complessità delle scelte che vanno aprendosi davanti al Pd. Il bipolarismo italiano non è mai stato metabolizzato istituzionalmente. Esso è sempre restato incardinato all’eccezionalità della presenza di Berlusconi: unico punto fisso di una scena nella quale gli attori (tanto più con l’uscita di Prodi dal cartellone) si sono alternati vorticosamente. Il Pd di Veltroni ha fallito l’assalto al ‘centro’ e questo, da numerosi indizi, va riformandosi su altre lunghezze d’onda. Per questo centro in via di formazione (nel quale converge di fatto anche la fronda delle colombe interne al Pdl) è cruciale l’uscita di scena, comunque la neutralizzazione, di Berlusconi e dei falchi da lui ampiamente foraggiati. Si tratta di vedere se il Pd di Bersani sarà in grado di muoversi rispetto a questo spazio con una politica propria, evitando l’isolamento, ma anche di trasformarsi nella salmeria di disegni agiti da altri.

4 dicembre 2009

Fausto in the Cajun's Land



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Fausto, dall'Acadia, in disaccordo sul No-B Day


Per una volta, nascosto fra le paludi dell'Acadia, quindi molto, ma molto lontano, mi sentirei di non essere d'accordo con la mia rispettabile socia. Vista da qui il no berlusconi day mi sembra un'adunata dei soliti snob, nel frattempo divenuti anche un poco moralisti. Convocata con nessun altro scopo che dettare l'agenda alla neo-dirigenza Pd nel delicato momento della sua transizione. Fossero anche un milione questa adunata non spostera' di una virgola i rapporti di forza fra i due schieramenti, se non all'interno del centro-sinistra. Che Franceschini e Veltroni ci vadano, prendendo la palla al balzo per marcare la differenza, rientra nelle cose. Tecniche super ritrite e stucchevolmente note per chi la ginnastica l'ha fatta nell'eta' infantile del '68 in mezzo a ogni genere di gruppettaristi e moschine cocchiere. Peraltro andare in piazza con Di Pietro e tutta la compagnia degli showmen mi genera problemi di stomaco. Soprattutto se significa mettersi alla coda di tale corteo. Il Pd sdoppiato ancora una volta fra il partito della piazza (dell'esterno) e quello della cautela (dell'interno)... Vien voglia davvero che questo soggiorno in Acadia, fra anziani cacciatori pescatori cajou, semplici, armati di fuoristrada arrugginiti e accampati nei mobilhome, quanto orientati all'Old Party, potesse prolungarsi a tempo indeterminato....

27 novembre 2009

Fausto da Natchitoches


Natchitoches e'una 'citta' (in realta',per i nostri standard poco piu' che un villaggio) al centro della Louisiana. Il nome sembra derivare da una miscelazione anglo francese di un termine Adai-Caddo, tribu' ivi presente in numero di 1200 membri. Ci arrivi di notte per una strada buia come la pece. Credi di esserti perso fra paludi infestate da alligatori, ma poi, d'improvviso, ti si para davanti una surreale festa pre-natalizia allestita con meravigliose luminarie sulla riva di un fiume.
Qui coltivo una follia silenziosa, ben al riparo dalle sirene del Tso (dove c'e' gente che pretende di curare le anime senza conoscerle). Porto con me tre o quattro libri. Uno di questi e'"Il primo Dio" di Emmanuel Carnevali.
Ebbene mi sentirei di rispondere parafrasando lo sventurato poeta bazzanese: "IO SONO IL PRIMO PD". Nulla di piu' erroneo dell'idea di un sito fiancheggiatore. E' tutto il resto della compagnia che mi fiancheggia fastidiosamente. Spesso senza saperlo, talvolta sapendolo anche troppo bene. Miriadi di nuovi e vecchi burocrati pretenderebbero l'autorita' di esercire,in franchising. Ma io so di essere il primo Pd. Non ho bisogno di licenza e da qui non mi muovo.
Io sono iscritto alla Cervi, con mio padre (in famiglia siamo rimasti solo noi: il Padre e il Figlio). La Mariangiola e' iscritta non so dove (e neppure se ha pagato la tessera). Ventura e' stato iscritto al Pd quando non c'era. Zani non si e' iscritto per un moto di stupido orgoglio. Voleva la tessera onoraria. Quarantena sarebbe un'ottima idea per tenere insieme questa manica di debosciati. Per affetto notturno vi saluto con affetto affidandovi questi versi di Carnevali. Da Almost a God (Ottobre-Dicembre 1931):
"Tutto e' piu' breve di qualcos'altro:

"tutto e' piu' simile a Dio di qualcos'altro.
C'e' una gara nel caos,

e questo e'molto stupido.
Io sono incerto come un ramo curvo di salice

che fa cenni all'acqua.
Ammiro il diavolo perche'lascia a meta'le cose.

Ammiro Dio perche' finisce tutto."

New - da Fausto su Astanteria


Propongo un articolo di Giuseppe Berta apparso sul sole 24 ore, nel quale c'e' un giusto omaggio (del quale sommamente mi compiaccio) a un antico (e pionieristico) lavoro che feci sulla Lega.
Fausto Anderlini

24 novembre 2009

Da Oklahoma a Dallas

Qui, a Oklahoma city sono in fase di stanca. Citta’ di ordinario buona-mal-gusto americano, anche se da queste parti e’ nato Woody Guthrie. Il computer e’ discreto per cui, mentre la famiglia dorme, ne approfitto per digitacchiare qualcosa. Piu’ che un occupatore di posti Tex mi sembra uno di quei pensionati che si applicano a fare le esperienze rimaste in sospeso nella ‘vita precedente’ (cosi il Coffy denominava la sua biografia di capo sindacalista): il sindaco, il parlamentare europeo, il padre, il segretario regionale, il melomane ecc. ecc. In cio’ un vero operaio di matrice turatiana socialista e dopolavorista. Ha ragione Ventura. Pensavo che Tex potesse mettere scompiglio negli equilibri soffocanti fra le varie tribu, e per un certo periodo l’ha fatto egregiamente. E’ in quell’epoca che ho maramaldeggiato con Zani, come con chiunque (con Zani, in particolare, proprio per via del legame libidico e per avere a suo tempo confidato anche in lui come guastatore). Per ironia fu proprio mentre Zani veniva posto fuori dal coro che egli si mise a cantare nel coro. Sino alla confusione finale: mettersi a cantare gregoriano mentre si apriva una fase dodecafonica. La sua terza mozione, ma soprattutto il modo di condurre quei disgraziati alla pugna, e’ stato un capolavoro di imperizia politica. Puro dilettantismo. Il mio tragicomico errore con Tex e’ stato di pensare che sarebbe stato stoicamente sull’isoletta che aveva scelto come ‘nuovo inizio’ della sua vita. Cioe’ di pensare che oltre a un guastatore potesse essere un asceta e un martire, esponendosi a un’eroica sconfitta sulla piazza bolognese. Sugli occupatore di posti. Anche Mauro lo e’ stato (con tutti trattamente di quiescenza conseguenti). Gli riconosco tuttavia una natura ‘eccedente’. I posti li ha presi (per non esser da meno nella concorrenza fra colleghi, cioe’ per non passare per fesso) facendogli pero’ schifo (considerandosi al di sopra di essi). E’ la sua doppia, amabile identita’ sulla quale ho diverse volte indugiato. La tassonomia del caso per inquadrare/inquadrasri e’ abbastanza facile. Una tavola a doppia entrata: sulle due righe (1/0) la vocazione alla leadership; sulle due colonne la vocazione ai posti. Ne conseguono quattro prifili: a) vocazione forte alla leadership/indifferenza, disgusto per i posti: e’ il weberiano leader carismatico, a vocazione profetica, ma qui si ritrovano anche innumerevoli dilettanti-militanti, tutti quelli, in altre parole, che il caso e le vicende della vita li hanno tenuti alla larga dalle ricercate occasioni eroiche; b) con forte orientamento alla leadesrship e ai posti. Nessuna contraddizione. Tipo anche questo previsto da Weber: i grandi professionisti politici, i leader democratici alla Gladstone ecc. I realisti politici, in grado di mixare al meglio le due note razionalita’ e le due nature (quella asctica e quella mondana); c) i cacciatori di posti, cioe’ i burocrati alla ricerca di qualche posizione: di reddito, status ecc. ecc. d) niente leadership, niente posti. Cioe’ me stesso, in larghissima compagnia….. Saluti, giro il muso della Ford verso Dallas. Citta’ del male. Ovvero di un celebre assassinio e di un tale GeiAr che ha allettato tanti apprendisti capetti politici…..

21 novembre 2009

Fausto live!

Sono ben vivo, ad Amarillo, nella prateria texana solcata dalla 66, circondato di vaqueros. Viaggio, e quindi ho poco tempo per scrivere. Per raggiungere l'efficacia del viaggiare bisogna liberare la mente. Fare il vuoto. Sentirsi lontani. Comunque vi leggo. Tu e Andrea avete anche spunti sublimi. Zani mi sembra in via di scongelamento. Ma chissa' se dopo l'ibernazione sara ancora vivo. Se mi fermo e trovo un buon computer scrivero' anche. Ciao Fausto. Ps. Peraltro soffro per il brutto incidente capitato a Fulvio, cui avevo dato l'incombenza per il gatto.
Postato da Fausto come commento a "Chi l'ha visto?" il 21 novembre alle 2.32

18 novembre 2009

Nuovo video

A quanto pare, l'autore del video non ha gradito l'inserimento in questo contesto... Per non lasciarvi a bocca asciutta, passeremo all'intrattenimento... Mariangiola

23 ottobre 2009

Previsioni


Si avvicinano le primarie e come di consueto azzardo una previsione. Il tentativo di Scalfari di trarre dal mezzo Marino (non escluso in vista di un vantaggio per Franceshini) mi sembra fallito. A giudicare da quanto si vede Marino potrebbe totalizzare un exploit anche superiore al 20-25 %. Dalla sua c’è tutto il popolo ‘radical’, alle diverse latitudini: civili, sociali, moderate ed estreme. In sintesi il nerbo della classe media intellettualizzata dei centri urbani (del nord), al caso grillizzata e dipietrizzata, con il blog in mano e spesso intrisa di moralismo travagliano, quindi anche vagamente leghista (come tipico di coloro che si fanno alfieri di un’etica assoluta laddove le condizioni permettono di farlo col minor costo….). Insomma un veltronismo aggressivo e dipietrizzato, che potrebbe aver scavato voragini sotto ai piedi di Franceschini. Bersani ha seguito il suo corso, senza scartare. Al sud le filièeres personalizzate potrebbero favorirlo in guisa ancora maggiore che fra gli iscritti. In Emilia-Romagna, a mio parere, avrà un risultato ottimo, perché Bersani è più popolare fra la gente (un emiliano doc) di quanto lo sia entro il partito. Se ciò accadrà anche il Bonacini (che non mi sembra niente male, un giovane volitivo sintonico alla parlata emiliana) ne trarrà beneficio per trascinamento minimizzando le speranze della Bastico. In sintesi vedo, per il Lunedì di conto, un Bersani a cavallo del 50 %, con Marino che insidia Franceschini. Queste primarie dovrebbero mettere in ancora maggior risalto una frattura già visibile fra gli iscritti: Bersani da una parte, Marino dall’altra, con Franceschini in uno spazio di mezzo relativamente ristretto (tutto quanto resta della mediazione svolta da Veltroni nel corso del suo mandato). Ovvero: da una parte un melange di ceti popolari rappresentati dal network storico della sinistra, dall’altro le classi medie intellettualizzate e ‘riflessive’ (in realtà radicalizzate). Avere davvero in mano il destino del Pd significa trovare il mastice fra queste due anime, ovvero una mediazione efficace. Scegliere Bersani significherà spostare il centro della mediazione a vantaggio della prima componente, e viceversa. Per questo sono a favore di Bersani, come ho argomentato in innumerevoli interventi. Per quanto le classi medie politicizzate siano essenziali nella stratificazione della sinistra, una loro totale egemonia sarebbe insopportabile e taglierebbe definitivamente i ponti con una base popolare che nelle periferie territoriali è già ampiamente franata. Resta da chiarire l’afflusso dei votanti. Dovrebbe essere facile prevedere il superamento dei due milioni (direi 2 milioni e mezzo). Intanto ogni iscritto al Pd ne trascinerà almeno due. Poi ci sarà una parte aggiuntiva mobilitata da due stimoli: un segnale a Berlusconi, un segnale di vita identitario della sinistra. Forse il primo stimolo giocherà a vantaggio di Marino e Franceschini. Il secondo però dovrebbe sostenere Bersani. Dalla misura in cui i due ingredienti si mescoleranno dipenderà anche l’esito (come entità, se non come tendenza) della competizione.

16 ottobre 2009

io e COFFERATI. Una intervista di Diego Costa al sottoscritto, apparsa ridotta su "Bologna" 11 Ottobre


1) E' passato un anno dall'annuncio di Cofferati, la sua indisponibilità a un secondo mandato. Che ricordi hai di quei giorni? All'interno del partito fu un terremoto? R. Ci fu, come ovvio, sbalordimento, soprattutto nei sostenitori. Coloro che l’osteggiavano, in fondo, trovarono conferma dei loro pregiudizi. Più che sentirsi sollevati di un peso si sentirono rinfrancati sino all’euforia nell’aver ‘visto giusto’: “Io l’avevo detto”. Ricordo che Sassi, un poco a nome dei ‘Formidabili’, giunse a pretendere le scuse dal partito, mentre in alcune redazioni di giornali (almeno una che conosco, quella di Repubblica) si brindò alla ‘liberazione’. I sostenitori invece si sentirono, altrettanto naturalmente, ‘traditi’. Cioè non presero sul serio le giustificazioni familiari avanzate da Cofferati. Bisogna dire che per costoro il lutto durò comunque poco. In fondo in fondo, essi sì, si sentirono come sollevati. Molti, in cuor loro, dubitavano che Cofferati, al punto in cui erano giunte le cose, e con dati di consenso palesemente controversi, riuscisse a reggere lo scontro con la destra. Con Cofferati in campo il fantasma di una ‘grande ritorno’ di Guazzaloca generava una qualche inquietudine. I dirigenti del partito, per parte loro, avevano percezione della situazione. Si deve pensare che da tempo avessero messo in conto un ‘second best’. E lo si vide nella rapidità della convergenza su Del Bono. 2) Un anno dopo... com'è cambiata la nostra vita? R. E’ cambiata la nostra vita ? Direi per niente, se non nei modi e nella misura che è dettata dal quadro più generale che la determina. In seguito alla crisi sono diminuiti redditi e consumi, mentre il futuro si è fatto ancor più minaccioso. Altro è il discorso della ‘psicologia cittadina’, la quale, come noto, ha un tratto tipicamente ‘domestico’. Si sublima in modo proiettivo e patologico sul Primo Cittadino, evocato di volta in volta come un curatore o un demiurgo, oppure additato come reo di ogni genere di mali. Nelle città ci sono sempre le più svariate giustificazioni per dare sfogo al naturale brontolio della gente. Anche intellettuali, opinion leader, eminenti autorità morali, quando si siedono nel salotto di casa, contribuiscono alle più surreali discussioni. Come il lungo dibattito crepuscolare sulla crisi/decadenza della città, misurata ogni fine anno sui due/tre posti guadagnati o persi da Bologna nella classifica del Sole 24 ore. Sino a dar luogo ai più comici risvolti profetico-letterari: dalla città “sazia e disperata” all’”alzati e cammina”, passando per “risorgi Bologna” ed altre amenità prive di senso. Se si considera che anziché mettersi a ridere, c’è chi si abbandona all’esegesi ispirata (e fra costoro non può mancare l’esimio De Plato) si può avere la misura di una certa mutazione antropologica nella città. Dove il gusto per l’aforisma roboante e smisurato (letteralmente ‘fuori di scala’) si accompagna alla passione per il cicaleccio da pianerottolo. E’ la fenomenologia di ‘Bolokistan’, della quale già un’altra volta abbiamo avuto l’occasione di parlare. Tornando ai cicli psicologici della città, siamo passati attraverso varie fasi: Guazzaloca fu elevato in cielo per il suo accattivante minimalismo, salvo scocciare un po’ tutti con il ricorso sistematico al gigionismo auto-celebrativo (cosa alla quale indulge tutt’ora), sino a trasformare la città in una specie di presepe (con statue, padri pii ecc.). Cofferati fu accolto come un Deus ex Machina: un eccesso di calore (e di aspettative) destinate presto a pietrificarsi in una specie di strutturale incomprensione. Per dieci anni, in sintesi, il ciclo psicologico ha avuto un andamento rapsodico e schizofrenico. Alle spalle il fantasma dell’antica ‘grandezza’ della città: che per la destra più prosaica (ma anche per la sinistra salottiera pre-post-moderna, letteralmente ou-topica, e culturalista, al meglio incarnata da Cervellati) erano i fasti pre-unitari, barocchi e controriformatori; per la sinistra era la città rossa del dopoguerra e dei ’60, con la sua vis ideologica e riformista. Fantasmi fondamentali per parametrare l’inquietudine del presente e/o instillare vere e proprie euforie progettuali (con annesso mito del ‘grande ritorno’). Dopo tanto dispendio psichico era logico aspettarsi (come si sta confermando) una stagione di distacco, pacatezza e moderazione. Sotto questo profilo, a parte quel che passa il convento italico, Del Bono si trova in una condizione estremamente favorevole. Non essendo accompagnato da grandi aspettative è anche al riparo dal rischio di pesanti retroazioni da disillusione. Anche considerando che i fantasmi alla base della nevrosi si sono ancora un poco allontanati, sino a sbiadire nel nulla, senza avere il fiato sul collo di una psicologia pubblica apprensiva può agire con più margini di autonomia e sicurezza. 3) Al sindaco di ieri sopravvive il suo fantasma. L'Opposizione ha di recente chiesto la verifica dei suoi impegni, opportunamente evitata dalla Maggioranza. Come mai il Cinese continua a incarnare superficialmente il "non sindaco"? Non è un complesso di inferiorità della città? Non è provincialismo nel senso più negativo del termine? E come mai la cosiddetta "discontinuità" resta un obiettivo amministrativo, dagli uni sottinteso, dagli altri amplificato R. La discontinuità è un’altra di quelle parole-chiave allusive a chissà cosa e che invece non vogliono dire niente. Rispecchiando semmai la vuotezza di chi le pronuncia. Bisogna dire che in campagna elettorale Del Bono ebbe la saggia avvertenza di non cadere nel tranello di chi pretendeva marcasse in ogni modo la ‘discontinuità’ con Cofferati. Che la destra e altri (come Guazzaloca, ancora adesso stordito dalla mazzata del 2004) vi faccia ricorso è normale. In realtà ogni amministrazione è giocoforza in continuità con la precedente, anche quando di colore politico diverso. Lo scheletro della politica amministrativa è relativamente rigido, anche se le guarnizioni e le nervature, specie stilistiche, possono cambiare. Dopo la spigolosità di Cofferati e del suo stile di governance basato sulla ‘conflittualità-negoziale’ era prevedibile si passasse a modi molto più concorsuali e ‘rotondi’. Cosa che si vede (anche troppo) nelle prime mosse di Del Bono. 4) Cofferati sindaco: cosa ha fatto bene, cosa male? E' stato davvero lo "sceriffo"? C'è un altro modo per definirlo, magari più originale? R. Credo che Cofferati non abbia fatto nulla di male e diverse cose buone. Alcune innovative, come il Piano strutturale e i progetti di riqualificazione urbana, altre in continuità con la tradizione, come i servizi sociali e la politica tariffaria. Sulle infrastrutture si è mosso stretto da condizionamenti oggettivi. Fare qualcosa, soprattutto senza disfare quel che c’è (piaccia o meno) è più difficile che immaginare piani a ‘tabula rasa’. La tabula è scarsa, ma mai rasa (ecco un esempio obbligato di continuità – al massimo, ricorrendo a Togliatti, di ‘unità nella diversità’). Non cè nulla di ciò che Cofferati ha fatto che non sia ascrivibile a una politica di sinistra. A parte le descrizioni caricaturali, anche la sua politica di inflessibilità legalitaria associata all’integrazione degli immigrati si muoveva su un piano per nulla trevigiano. Se il governo Prodi l’avesse adottata subito probabilmente si sarebbe fatto qualcosa di bene. Infine lasciando il campo Cofferati lo ha anche liberato a favore del centro-sinistra (Pd e coalizione). La destra si è divisa e Del Bono ha potuto vincere senza troppi patemi. Avesse vinto la destra, allora sì sarebbe stato giusto incolpare Cofferati di gran parte della responsabilità. 5) Da Cofferatiano convinto ti sei lasciato sfuggire una frase: mi sento tradito. Puoi spiegare il perchè? R. Dall’arrivo di Cofferati io non ci ho guadagnato nulla, perciò nulla ho perso dalla sua dipartita. E’ possibile che gli abbia costruito addosso un vestito che non era suo fino in fondo. Sbagliando persona e perdendomi dietro un auto-illusione (come mi ha detto un amico con il quale posto piacevolmente). A me lo stile conflittuale-negoziale (cioè prima ci si misura-dichiara nell’ostilità, poi si fa l’accordo, ma sempre conservando al soggetto pubblico la sua ‘autonomia’) piaceva un sacco. Beninteso: io sono assolutamente favorevole alla concertazione sociale. Oserei persino definirmi un seguace del Guild Socialism. Ma non sopporto le dirigenze che trasformano la rappresentanza in privilegio cetuale. Le grandi organizzazioni sociali (coop, sindacati, associazioni di categoria) sono una grande risorsa ereditata dal passato, ma in molte di esse è ormai spenta la linfa della cittadinanza sociale. Nella spigolosa affermazione di distanza di Cofferati vedevo una possibilità di riaprire processi di ri-legittimazione democratica nel tessuto delle associazioni, emancipandole dal rischio dell’oligarchismo. Nello stesso tempo mi da anche fastidio la petulanza comitatistica, che io reputo una forma depravata della partecipazione. Perciò per tutto un periodo mi sono sentito in sintonia col Coffy, anche intimamente (scusandomi per l’iperbole): lui, un forestiero, io, uno straniero in patria. Questo approccio, in ogni modo, non è passato. Alla fine le forze inerziali della città hanno prevalso. Ma il problema resta aperto e il Pd, dovrebbe porselo come Il suo problema. Dulcis in fundo è vero che Coffy mi ha lasciato di stucco. Non perché se ne sia andato. Ci avesse detto che il suo percorso era terminato, presentando un bilancio, e che era giunto il momento, anche per evitare rischi al Pd, di dedicarsi ad altro – come fa ogni capo politico degno del cinismo del ruolo - avrei ingurgitato meglio la pillola. Ciò che mi ha scocciato è stata la tiritera sul figlio…..mi sono sentito un po’ preso per i fondelli. 6) Infine: nel Pd continuano le baruffe chiozzotte. L'occasione per migliorarsi la dà sempre la...casa dei vicini. E' di ieri l'appello all'unità da parte delle parlamentari Lenzi e Zampa. Non sarebbe davvero un buon segnale giungere al congresso con un ritrovato intento comune, che faccia leva sul segnale giunto dalla corte costituzionale? R. Per il Pd auspico che si consumi il più rapidamente possibile il passaggio al suo Termidoro. Cioè la fine della fase ‘rivoluzionaria-confusionaria’. Un Segretario, una identità accettabile, una organizzazione (solida quel tanto che si può – liquida lo è già ad abundantiam), un programma di alleanze sociali e politiche, e di soluzioni all’altezza della crisi. Purtroppo, essendosi dato uno Statuto demenziale, questo risultato stabilizzante è fortemente a rischio. Nel polverone è inevitabile si sentano le cose e gli appelli più strani. I documenti congressuali erano tutti sotto il livello della necessità, ma ho appoggiato Bersani, perché lo reputo il più adatto a realizzare a breve il Termidoro, sperando poi di trovare, in prospettiva, una qualche via inesplorata alla salvezza. E comunque non tutto è cacca. I giornali, specie quelli ‘amici’, oltre a perdersi a descrivere i litigi (in ottava pagina) avrebbero dovuto sottolineare come 460.000 votanti sono una forza (e una prova) che merita rispetto. Dove si vede in Italia una tale prova di democrazia ? E in Europa ?

7 ottobre 2009

Il congresso Pd fra il lupo (la destra) e il loop (sé stesso).


450.000 votanti sarebbero grasso che cola. Se, e sottolineo se, con la Mina sotto il culo: 1) ci fosse stata una stampa che ne avesse sottolineato il valore (mentre il dato era riportato non prima dell’ottava pagina, accompagnato alle consuete comarate dei diadochi). Non c’è partito al mondo, quantomeno in Europa, che possa vantare una membership di tale mole, e si dovrebbe trarre la conclusione che il Pd, almeno sotto questo profilo, vive buonissima salute. In un paese dove i partiti sono protesi di capi auto-legittimati (da Barlusconi a Di Pietro, passando per Casini) e dove, come conseguenza, non si fanno congressi di sorta, ma solo raduni acclamatori, non c’è uno straccio di osservatore che abbia avuto parole di elogio e di meraviglia per questo ‘miracolo’ (ivi compresi quelli di Repubblica). Non c’è stato un giorno in cui questi 450.000 sfigati godessero di un vantaggio sulla D’Addario. 2) tutti i contendenti ne avessero tratto lezione per comportarsi come si deve. Cioè valorizzare quanto avvenuto. Il rapporto votanti/iscritti è risultato altissimo, ben superiore a quelli totalizzati a suo tempo dai Ds, per non parlare del Pds o dello stesso Pci. Se tanta gente a votato non è perché è stata trainata da tizio, caio e sempronio. Quantomeno, non solo. E’ andata a votare perché ha avvertito che le si offriva uno strumento reale. Non predeterminato negli esiti. Dunque, si è trattato di una grande prova di democrazia e partecipazione. Pure scontando deficit palesi nell’organizzazione della discussione e nell’offerta programmatica dei candidati, con la conseguente enfatizzazione del votificio. I franceschiniani, in proposito, sono quelli che hanno steccato di più. Marino, a parte ualche richiamo alla ‘questione morale’ degno di un idiot savant, ha avuto la saggezza di rivendicare il proprio risultato. Come Bersani, malgrado le castronate di alcuni suoi luogotenenti. I franceschiniani si sono invece messi subito di buzzo non a valorizzare il proprio risultato (tutt’altro che disprezzabile), ma a svalorizzare quello di Bersani. Con l’argomento demenziale che il Nostro sarebbe stato votato dalle clientele meridionali (come se la Sicilia fosse la Svizzera) e dagli apparati di partito. In realtà il voto segnala, ovunque, un forte rimescolamento: di militanti, gruppi dirigenti, apparati (per quel che ne resta). Vedasi in proposito il caso dell’Emilia-Romagna, dove è palese l’eclisse del (supposto) monolitismo d’apparato. Ma, a maggior ragione, anche il caso della zona rossa tutta considerata. In ogni caso il partito è quello che è. Essendo italiano, necessariamente, è fatto di un Sud, di un centro e di un nord…. 3) questa votazione avesse potuto essere implementata in una dinamica congressuale come si deve. Non dico un ritorno ai vecchi fasti della ‘democrazia deliberativa congressuale’, ma almeno evitando d’infilarsi in uno statuto letteralmente demenziale. Non c’è organizzazione al mondo che non si dia uno statuto per preservare sè stessa. Il Pd, con i suoi grandi legislatori (vecchie volpi e neo-costituzionalisti apocrifi e di nuovo pelo) – unico caso al mondo – è riuscito a dotarsi di uno Statuto che contiene un dispositivo di auto-dissoluzione. Se il risultato delle primarie dovesse dare ragione a Franceschini (Dio ce ne scampi !) avremmo una situazione scismatica, cioè due segretari (uno dell’interno, il partito, uno dell’esterno, gli elettori) con diversa fonte di legittimazione. Non si sa proprio dove si possa andare a finire. Anche perché tutti i casi preventivabili (a meno di una vittoria netta di Bersani) lasciano aperte strade assolutamente indeterminate. Lo Statuto del Pd, non solo Barocco, ma intimamente stupido, era stato pensato (unica giustificazione) nel quadro di un modello maggioritario nel quale il prescelto era prima di tutto il candidato alla premierschip. Esattamente come nel modello americano, dove però non c’è il segretario di partito, e dove il processo ha ben altra coerenza. Esso parte dall’autonomia degli Stati federali (mentre qui i segretari regionali sono cooptati dal referente nazionale…bell’esempio di federalismo !) e procede eliminando gli outsider, così da produrre l’unità (all’atto della convenzione nazionale) attorno all’unico candidato in pista (mentre qui restano tutti in gara, più felici che mai di far pesare il potere delle minoranze). Per tornare a noi le circostanze, caduto Veltroni, hanno seguito un corso imprevisto. Nei fatti siamo a scegliere un Segretario di partito non un candidato premier. Di qui un totale disassamento del metodo. Resta il fatto che anche ove le cose dovessero mettersi per il meno peggio, il problema del Pd resterebbe inalterato: come trovare un ubi consitant dell’identità, dell’organizzazione e dei gruppi dirigenti. E’ del tutto evidente che anche vincendo Bersani (come ci si augura – ripeto – per evitare una diaspora senza fine) egli si troverebbe davanti la realtà di un partito diviso e tutt’altro che amalgamato, con opposizioni talmente forti da potere interdire qualsivoglia linea politica (come già accadde ai Ds all’epoca del Correntone). Abbiamo già sperimentato a iosa (con buona pace della Bindi e di innumerevoli apprendisti stregoni) che un partito non si può governare a maggioranza (almeno le minoranze siano così residue da rendere pleonastica la questione). Un partito non è un parlamento. Ci si sta perché in esso ci si riconosce e ad esso si partecipa. La ricerca di soluzioni unitarie è un obbligo. Costi quel che costi. L’aggettivo maggioritario va bene sin che si tratta di contrapporlo al minoritarismo (al caso testimoniale) come vocazione. Per il resto, trattato come sostantivo, è una idiozia. Se le correnti possono essere un lenitivo dell’eventualità di spaccature, allora sono tutt’altro che da disprezzare. In ogni caso, se si è capaci, si trovi quello che si vuole. Ma non il metodo maggioritario ! Abbiamo già dato…. Il peggio è che la storia va per le lunghe. Anche dopo le primarie gli organi dirigenti periferici conseguenti al congresso non saranno in carica che dopo le regionali. Nel frattempo può accadere di tutto, con segretari locali che restano in carica, magari incattiviti, pur essendo minoritari. Dulcis in fundo, incombe, sopra tutto questo baillame endo-masturbatorio, una micidiale convergenza di crisi economico-sociale e istituzionale, con la berlusconizzazione ormai giunta al suo apice eversivo. In tali circostanze, invece di fare un congresso, avremmo dovuto avere un partito in grado di drammatizzare la crisi scendendo sulle piazze (e confidando sul supporto dell’opinione pubblica europea). Agendo la drammatizzazione attivamente (come fossimo in Iran o in Ucraina), piuttosto che subirla ad opera della destra, con l’accrescimento della timidezza. Prende fuoco la casa e noi siamo lì a giocare a carte nello stanzino! Anche per questo andrò alle primarie, e mi auguro che ci vadano in molti. Per votare Bersani, in modo da evitare il peggio, e per metterlo in condizione di esercitare una leadership finalmente unitarista, anziché maggioritarista. E per metter fine al loop al più presto.

22 settembre 2009

All'orfanatrofio. Dove intellettuali e politici non si vedono nè si parlano.


Porgo ai blogger questi appunti. Me li ha suggeriti un libro scritto da Salvatore Biasco (Per una sinistra pensante, i libri di Reset, Marsilio) che ho avuto l’occasione di discutere alla Festa de l’Unità. L’autore è molto interessato (avendola vissuta sulla sua pelle) alla questione del rapporto fra politica e intellettuali. Tutto il libro è una denuncia, per quanto a fin di bene, del Pd, accusato di non aver saputo proporre una propria cultura politica. La verità è molto semplice. Un partito di ‘visione del mondo’ non può fare a meno degli intellettuali, un ‘partito di occupazione delle cariche’ può farne del tutto a meno o, se proprio ne ha bisogno, terrà un rapporto selettivo e strumentale. Li userà, cioè, come ‘portaborse’. Il Pci gramsciano (nella felice e occasionale sintesi dei ’60-’70) era un ‘intellettuale collettivo’. Ciò non rendeva affatto sovrapponibili i ruoli di direzione politica e di elaborazione culturale. La distinzione fra insider (collocati sulla tolda di comando) e outsider (stivati più in basso), era enormemente più marcata di oggi. Infatti non si tenevano primarie e il processo di selezione dei leader era totalmente privo di quegli elementi stocastici, cioè casuali, che oggi constatiamo a iosa. Nessun dilettante, intellettualizzato o meno, poteva ascendere (‘per caso’ e sulla spinta di un’ordalia partecipazionistica) alla dignità dirigente. Tuttavia tutte le situazioni erano contenute nel ‘partito scuola’. Il quale, come ogni scuola che si rispetti, era organizzato per rigide gerarchie e attraverso una minuta specializzazione di ruoli e mansioni. Il partito scuola era peraltro assolutamente affine al partito-fabbrica, nell’accezione fordista del termine. Nel partito scuola c’erano le strutture pedagogiche, per i vari livelli di preparazione, ma anche i centri di ricerca, peraltro assai liberi nei loro indirizzi. La stessa esistenza di un nucleo di pensiero condiviso ne rendeva possibile diverse traduzioni, anche in sede teologica (come nella Chiesa). C’erano ad esempio diverse varianti epistemologiche del marxismo: idealistico-crociane, ovvero storiciste, neo-positiviste, neo-kantiane ecc. spesso in lotta feroce fra di loro. Inoltre era rappresentata l’intera gamma delle sensibilità e delle traduzioni politiche del marxismo: luxemburghiane, adleriane, labriolesche, leniniste, soreliane ecc. Tutt’altro che agire come un elemento dottrinario respingente il minimo comune marxismo condiviso (mcm) era aperto alle più varie contaminazioni provenienti dalla filosofia, dalla storia, dalla letteratura, dalla sociologia e dall’economia. In ogni modo, dirigenti, quadri, militanti, intellettuali e simpatizzanti erano inseriti in un ambiente avvolgente, proprio perché centrato su alcuni elementi forti di cultura politica, dibattuti ma sostanzialmente condivisi, almeno come parametro di riferimento. Questo, beninteso, era un partito la cui base sociale era prevalentemente operaia, mentre in origine era costituita dal proletariato agricolo. I massimi dirigenti erano quasi tutti di formazione intellettuale, ma i quadri erano tratti dalle classi sociali rappresentate, che attraverso la cultura erano chiamati ad emanciparsi. Resta infine che fra intellettuali orientati alla politica e politici di estrazione intellettuale era facile intendersi. Certo per affinità di ceto, cioè per il valore tributato alla cultura nella definizione del sé, ma anche perché, quantomeno, avevano letto gli stessi libri. C’era comunanza semantica e concettuale. Parlavano la stessa lingua, anche se con gradi diversi di sofisticazione e inflessioni gergali definite dalle diversità dei ruoli. Di quel partito, oggi, non c’è più la base materiale. Il Pd tiene in scarsa considerazione l’elaborazione intellettuale perché, come sostiene Biasco, difetta di cultura politica (il chè è vero), ma anche perché, paradossalmente, è quasi interamente composto di ceti medi intellettualizzati. Oggi il gruppo più numeroso che ne articola la rappresentanza nelle assemblee elettive e negli esecutivi è costituito, non per caso (anche se pochi lo sanno) da liberi professionisti e figure con ruolo dirigenziale. Scomparsi per intero operai e lavoratori autonomi, assai ridotti gli impiegati (e fra di loro i pubblici dipendenti la cui fortuna si è fermata agli ’80). Pochi i politici professionali. Un fenomeno che si replica persino nei più piccoli comuni. Quali sono le motivazioni che spingono questi ceti a svolgere gli incarichi politici ? Alcune prosaiche. Per quanto vituperati gli incarichi politici restano ambiti per gli emolumenti e le posizioni di status in essi incorporati. Alcune funzionali. La politica è un ottimo trampolino per allargare il giro di conoscenza di cui ogni libera professione si nutre, specie per chi è alle prime armi. Inoltre in una politica che nella sua componente amministrativa si è molto tecnicizzata i liberi professionisti sono le figure dotate del migliore back-ground per affrontarne le asperità. Altre ragioni sono più nobili. Certamente c’è una spinta valoriale: certe nozioni condivise, ad esempio, relative al cd. ‘bene comune’ e all’impegno civico, un orientamento solidaristico, la motivazione verso mondi associativi che si intende intermediare. Questa, tuttavia, è una Welthanschauung general-generica, leggera, volatile, molto intuitiva e assai poco strutturata, se non tramite qualche luogo comune. Più una psicologia, una mentalità, per quanto radicata, che una cultura. Men che meno ‘politica’. Tale orientamento è infatti tratto in via diretta dall’ambiente di socializzazione, mentre i sistemi di pensiero, gli apparati concettuali, i linguaggi, l’expertise tecnica sono tratti dall’esterno della politica, cioè, essenzialmente dalle istituzioni scolastiche e professionali. Oggi il militante Pd (restando su una scala tipico-ideale, necessariamante estremizzata) è quasi sempre un laureato dotato di master, cosa che ne definisce l’autostima e lo abilita presuntamene alla funzione dirigente. La ‘meritocrazia’, cioè l’ideologia del primato del ‘merito’ è giustamente il suo manifesto programmatico. Perfettamente recepito, del resto, in quella carta fondamentale del Pd che è un puro distillato dell’incontro fra rituali accademici (con la loro enfasi mandarinale) e suggestioni medio-cratiche. I corsi di politica cresciuti un poco ovunque come appendice dei think tank sono assolutamente congrui a questa logica. Master post-universitari frequentando i quali si vorrebbero acquisire, con tanto di attestati, i titoli per concorrere alla distribuzione meritocratica degli incarichi. Da tutto ciò origina la necessaria emancipazione dalla cultura politica (che, a contrario, è una Welthanschauung ‘pesante’, cioè politicamente strutturata) e, assieme, dalla riflessione intellettuale della politica. Inoltre venendo da processi formazione totalmente esterni al partito, ognuna gelosa della sua personale expertise, tali figure sono necessariamente improntate all’individualismo. Un individualismo che potremmo definire idiosincratico e presuntuoso (della serie: “lei non sa chi sono io”) - per opposizione alla prosaica durezza di quello di destra, perfettamente consapevole del momento in cui deve fare ‘gregge’, Perciò il problema che si pone non è quello del rapporto con gli intellettuali, bensì perché un partito così pervaso dalle funzioni intellettuali non è in grado di produrre una elaborazione intellettuale innervata nella politica e capace di arrivare, per questa via, a condizionare il senso comune di chi non è né un intellettuale né un professionista (o semi-professionista) politico. Capace come tale di tessere e ispessire la cultura politica. Il Pd, più prosaicamente, è un partito di intellettuali (tratti dall’economia dei servizi) privo di una cultura politica dotata di solidità e perciò incapace di assegnare un ruolo di rilievo all’elaborazione intellettualizzata della politica. Ciò che si vede del Pd è piuttosto una serie di giustapposizioni: da un lato una babele di ‘residui’ di varie culture politiche defunte, dall’altro un generico orientamento a-ideologico, vagamente valoriale, che nella celebrazione del ‘nuovo’, della ‘modernità’ e della ‘democrazia’ partecipata vorrebbe fungere da mastice dell’insieme. Sotto questo profilo si potrebbe meglio precisare la questione: non è che il Pd è privo di cultura politica, ne ha una molteplicità. Tutte però sono labili. Un vero partito post-moderno – si potrebbe dire. Ma senza le televisioni. Come si esce da questo circolo vizioso ? [beninteso sempre che si avverta questo come un problema, dalla via che non manca chi teorizza l’assoluta irrilevanza, se non l’effetto zavorrante, della cultura politica]. Torniamo al concetto di ‘cultura politica’. Biasco, che è un economista, né da una definizione politologia corretta. Concorrono a definire la cultura politica i vari lati che la compongono: quelli intuitivi e psicologici, quelli espressivi, quelli concettuali e quelli pratico-stilistici (modi di comportamento, etiche del dovere, selezione dell’agenda, formazione dei gruppi dirigenti, assegnazione degli incarichi ecc.). Tuttavia la cultura politica se è tale non si dà allo stato brado, non germina spontaneamente dalla società (civile). Né è pre-confezionata dal ceto degli intellettuali. Essa è un prodotto dei gruppi dirigenti medesimi. Sono essi la sintesi dell’elemento intellettuale e di quello politico. Da ciò consegue il sedimento distintivo rivelatore dell’esistenza di una cultura politica: un modo di approccio, uno stile di comportamento. Se dal basso vengono i sentimenti, dall’alto viene la loro ri-strutturazione come cultura. Ne esce una Welthanschauung, e gli intellettuali avranno il loro posto, come l’ultimo dei militanti alle prese con un ciclostile o con i fornelli di uno stand gastronomico. E qui, in ultima analisi, si vede la vera debolezza del Pd: gruppi dirigenti frammentati e in larga misura inadeguati al compito. Anche perché – è una mia opinione – sfibrati dall’ansia di non perdere la loro posizione, cioè da una sindrome ‘contendente’ ormai entrata in una parossistica dismisura. Perché un coacervo di capi di vario ordine e pezzatura diventi un ‘gruppo dirigente’ capace di palsmare una cultura politica, occorre tempo. L’idea iper-democratica della perfetta sostituibilità dei dirigenti con nuovi venuti estratti in via permanente per via ordalico-elettorale, rende particolarmente nevrotico questo stress da mancanza di tempo. Inoltre tutto si risolve nella pre-selezione. Passando di pre-selezione in pre-selezione, è chiaro, la selezione non verrà mai. Così le cerchie dirigenti, cessano di essere tali ed evaporano in un nebuloso polverone. Nella fase fondativa-rivoluzionaria veltroniana nuove figure hanno scalato (chi essendo cooptato nella confusione generale, chi con autonomo protagonismo) la tolda di comando, rendendola vieppiù affollata. Alcuni di questi non è dato sapere di quali virtù siano portatori, di altri già tende a definirsi un’aura che è tipica degli ‘idiot savant’, alcuni altri sembrano rivelare delle potenzialità. Non hanno affatto sostituito i dirigenti di lunga durata. Si sono piuttosto accompagnati ad essi, ma rivendicando in modo confuso e acrimonioso la propria alterità. Se hanno scalzato qualcuno sono piuttosto gli intellettuali-politici di lungo corso, incrementando perciò il tasso di ignoranza. Insomma il materiale umano è questo. Se esaurita la fase confusionaria-rivoluzionaria, ci sarà un buon termidoro, forse, dal polverone emergerà un gruppo dirigente. Solo allora avremo la nuova ‘cultura politica’.

11 settembre 2009

Cuius regio eius religio


L’affare Boffo segnala qualcosa che non è stato afferrato dai molti commenti. Perché l’affondo di Berlusconi e dei suoi scherani contro il mite esponente del giornalismo cattolico ? Perché questo impietoso squadernamento della debolezza che mina la gerarchia ecclesiastica ? Perché questa pubblica umiliazione di una Chiesa, della quale, pure, si vorrebbe realizzare per intero il programma morale ? E che fino a prova contraria si è proposta come un alleato di rispetto della destra italiana ? Bisogna andare al 1555, Trattato di Augusta. Cuius regio eius religio. Ovvero la religione dei sudditi, nelle diverse regioni, sarà quella imposta dal Principe ivi regnante. La religione di Stato è in realtà null’altro che la religione sottoposta allo Stato. La religione ridotta ad un mezzo dello Stato. Questa evoluzione è implicita nell’ateismo-devoto. Ne è anzi la conclusione inevitabile. L’ateo devoto non crede in alcunché, ma si avvale della forza ordinatrice e unificante dell’etica religiosa. Due debolezze che fanno una forza: un potere politico incapace di trovare in sé la sua legittimazione, una sfera religiosa incapace di imporsi per via autoritativa, e indebolito nel suo stesso campo. Un mondo di convertiti edificato da forze incapaci di convertire, cioè di convincere (con atti di fede adeguati allo scopo). Il concordato ‘materiale’ fra stato e chiesa perorato da Berlusconi è, in fondo, null’altro che una riscrittura del trattato di Augusta, cioè un patto di soggezione della Chiesa al potere politico. E’ il potere politico che si prende in carico la realizzazione del programma etico e funzionale della gerarchia ecclesiatica (dal finanziamento delle scuole cattoliche alla intromissione religiosa nella scuola pubblica, dalla bioetica alla regolazione civile). Di qui una intrinseca e immediata superiorità rispetto alla Chiesa, messa in posizione debitrice, come un ostaggio (mentre era il governo di centro-sinistra piuttosto a essere un ostaggio nelle mani della Chiesa). Berlusconi punisce impudicamente la Chiesa proprio per riaffermare questa acquisita supremazia. E non a caso la Chiesa risponde balbettando/traballando come il pugile che ha subito il Ko. Se devi onorare il debito che ti sei assunto verso di me (Berlusconi) come puoi prenderti il lusso di criticarmi ? Del resto questo dispositivo si era già visto nei periodici misunderstanding fra Lega e Chiesa. La Lega è il tipico partito di atei devoti, che si proclama cristiano per definire il proprio corredo flolkoristico-identitario. Quando la Chiesa ha accentuato le critiche verso la Lega, Bossi non si è ritratto dal minacciare una secessione religiosa, magari verso il protestantesimo. Esattamente come nella pace di Augusta. Non ti va bene la religione del principe ? Emigra ! Tuttavia non bisogna dimenticare che quella pace era intrinsecamente instabile. Infatti ne conseguì la guerra dei trent’anni.

Il Pd e la classe politica 'aspirante'


Seduto al ristorante Alba, scorro le prime quattro pagine di una edizione de l’Unità. Un forum fra donne del Pd sulla questione veline e politica. Fra i vari occhielli attira l’attenzione un icastico: “non siamo interessate ai mariti miliardari !”. I commenti sono corredati da foto di redazione nelle quali sono riprodotte le donne riunite attorno al tavolo: volti intensi segnati da impegno, attenzione, serietà. Soprattutto distinzione culturale. Abbigliamento (per quel che si può vedere) discreto, elegante o casual, come è in uso nella buona borghesia intellettuale. Infatti, leggendo i curricola, si viene a sapere che le discussant sono, nell’ordine: una professoressa alla Columbia University di New York, due deputate e una senatrice del pd con significative esperienze amministrative, una scrittrice di successo, una manager esperta di organizzazione, una direttrice di un Istituto Gramsci. Insomma un gruppo decisamente popular (e chissà quale è lo scaglione di reddito dei rispettivi mariti…). Restando al dibattito i temi di riflessione spaziano dai j’accuse contro il velinismo berlusconiano alla denuncia della degradazione imposta all’immagine femminile. Con tutto ciò che ne consegue per il Pd. Infatti i discorsi scivolano inesorabilmente sui limiti che si frappongono, nel Pd, alla valorizzazione politica delle donne. In effetti il Pd è letteralmente ossessionato, sin dalla nascita (ma anche il Ds terminale non era da meno) dalla promozione di nuove classi dirigenti. Normalmente evocate all’insegna di svariati elementi caratterizzanti. Tutti tratti dall’identità (per quel tanto che è proclamata) assegnata al partito: merito, talento, competenza, expertise professionale maturata fuori dalla politica. Coniugati, a loro volta, in stretta correlazione (anche statistica) con il genere e l’età anagrafica. A ciò sono riconducibili tutte le dibattutissime questioni proceduralistiche volte a regolare la cd. ‘contendibilità’ – ovvero l’agognato avvio di un processo competitivo di mobilità/ricambio politici. L’identikit sociologico che emerge dall’incrocio delle diverse variabili è semplice da individuare: donne e uomini in età giovane-matura dotati di laurea e master, meglio se con un curriculum professionale accreditato o potenzialmente tale. I politici di lungo corso (disprezzati come oligarchie), i funzionari e i politici professionali privi di credenziali sociali proprie costituiscono i nemici ‘interni’ di questo ceto aspirante alla leadership. Lo stereotipo rivale è quello della velina berlusconia: cooptata in base al caso mediatico e alla bellezza fotogenica. Ma anche gli energumeni sociali emergenti dal volgo leghista. Inoltre esso sta in un rapporto di stretta contiguità con i gruppi stimolati dal grilliamo e dal dipietrismo. Fra costoro c’è un comunanza sociale di base. E infatti resta sempre aperta la possibilità di schierarsi, al caso, nell’uno o nell’altro versante del cleavage che oppone il pd alla politica enragé. In effetti il tipo di aspiranti alla classe politica costituisce la cartina di tornasole dei movimenti politici nel momento del loro abbrivio. Tutta la lunga durata, nelle sue varie fasi, del processo di democratizzazione è non altro che il succedersi sulla scena, venendo dal basso o da luoghi negletti alle coalizioni delle èlites dominanti, di nuove aggregazioni socio-politiche. Gli avvocati di campagna furono il perno degli Stati Generali, assieme a commercianti, impiegati, artigiani. I sanculotti erano la sintesi fra la piccola borghesia di nuova formazione, produttiva e intellettuale, e le plebi urbane dedite al lavoro manuale fino allora vissute nel disprezzo aristocratico e curiale dell’Ancièn Regime. Il movimento operaio è stato una straordinaria fucina di quadri estranei all’establishment vigente. Il partito socialista aveva il proprio nerbo dirigente in un peculiare melange: accademici, medici, avvocati, esponenti delle arti liberali di estrazione positivista e di orientamento filantropico, assieme a maestri, piccoli artigiani (i ‘ciabattini’ studiati da Hobsbawn), sindacalisti e organizzatori di cooperative. In una società dove i rappresentati (essenzialmente le plebi rurali) erano quasi sempre analfabeti gli artigiani-filosofi itineranti armati di una fantasiosa cultura autodidattica costituivano un trait-de-union efficace con l’élite borghese ostile alla propria classe. Il movimento cattolico estrasse i propri quadri dal seno delle organizzazioni cattoliche e dalle loro emanazioni sociali: preti di campagna, piccola borghesia rurale, ceti medi. Il fascismo, dopo avere pescato negli enragés del sottoproletariato gli adepti della fase rivoluzionaria, si appoggiò alle classi medie impiegatizie incardinate allo stato. Il Pci fu in grado di produrre una sintesi grandiosa (e irripetibile) fra una vigorosa aristocrazia intellettuale mobilitata dal marxismo e una rete di quadri tratti dal proletariato rurale e urbano direttamente preparati dal partito. Ancora nei ’70-’80 il funzionariato Pci era composto in larga misura dei membri più attivi della classe operaia industriale. Venendo ad epoche a noi vicine (cioè alla fase decadente della democrazia di partito) il Psi craxiano contrappone alla gestione di De Martino, ancora segnata dal vecchio calco storico, una pletora di quadri di estrazione piccolo-borghese e impiegatizia. Generalmente poveri e smaniosi di migliorare il loro status con l’intermediazione politica. Non fosse stato per la rilevanza assunta da questo strato sociale famelico difficilmente avrebbero potuto svilupparsi le forme estreme assunte da tangentopoli. La stessa Dc, del resto, si era precocemente liberata dell’imprinting del cattolicesimo sociale. Divenendo partito-Stato traeva i propri quadri direttamente dallo stato, dal parastato, dal sottogoverno e dalle agenzie economiche (banche e imprese irizzate). In una linea di rinnovata continuità con il fascismo. Forza Italia e la Lega sono stati momenti di novità. Forza Italia riciclando personale del penta-partito in disfacimento, ma soprattutto ponendo al centro una nuova leva di yes-men tratti dalla fininvest e addestrati al multilevel marketing. Il piazzista commerciale, nella sua rinnovata veste post-moderna, è stato un soggetto indubitabilmente nuovo della platea politica. Se l’attuale voga del ‘velinismo’ resta un elemento meramente additivo della classe politica forzitalica (il cui nucleo è composto da un nucleo ristretto di ciambellani del leader e, in periferia, da una varia umanità di berlusconidi tratti dalla classe media) esso è nondimeno emblematico della fase suprema della morfogenesi mediatica. E comunque psicologicamente rilevantissimo, tanto più in una società con i canali di mobilità occlusi. La cooptazione dal basso, proprio nella sua casualità stocastica, mostra la miracolosa possibilità per lo spettatore di passare dall’altra parte del video. Cioè sul palcoscenico. Immedesimandosi nel piazzista, proprio come nel multilevel la torma dei venditori dilettanti si fonde con il coordinatore delle vendite. La Lega, per parte sua, ha promosso una leva di quadri tratti direttamente dalle periferie territoriali: piccole classi medie e popolari con bassa scolarizzazione (dall’artigiano all’amministratore di condominio, dall’operaio al geometra….). La Lega, una volta liberatasi (non a caso) dei pochi e malsopportati esponenti intellettuali, o simili (dal prof. Miglio a Rocchetta), è l’esempio puro di un partito privo totalmente di una leadership intellettuale, la cui assenza è interamente surrogata dal dispotismo del gruppo politico raccolto attorno a Bossi, il quale riassume nella sua persona tanto le funzioni di direzione politica che quelle carismatico-ideologiche (persino liturgiche). In questo senso la Lega è davvero un partito popolare: una via di accesso immediata alla politica per gli individui più paradossali e inesperti. Con il contrappasso, però, di una assoluta sostituibilità (esattamente come avveniva con le purghe staliniane: straordinaria occasione di mobilità sociale per milioni di persone escluse dalla vita pubblica e dagli incarichi statali). Concludiamo. Il Pd sembra perciò proporsi, nella casistica, come il luogo di promozione (o del tentativo di proporsi) di un ceto di borghesia intellettuale post-moderna. Di qui riceve una qualche spinta, specie nei contesti urbani, ma qui si definisce anche il suo limite. Cioè l’assoluta impossibilità di realizzare una congiunzione con gli starti sociali del territorio, realizzando quell’unità di ‘mano/mente’ che fin dall’illuminismo ha caratterizzato i movimenti rivoluzionari e riformatori. Peraltro uno dei limiti di questa neo-borghesia intellettuale è la sua presunzione e la scarsa auto-coscienza dei suoi limiti, che sono numerosi, sia in termini politici che intellettuali. Non è infrequente incrociare nel Pd individui mai visti, con ottimi voti scolastici ma ignoranti quanto presuntuosi.

13 agosto 2009

La Repubblica di carnevale, ovvero dove ogni scherzo vale


Nell'editoriale di oggi di Repubblica Bologna (giovedì 13)la scrivente (non ricordo bene se Cappelli o Bignami, il giornale l'ho dimenticato al bar...) prende in mezzo il povero Melucci e leva il dito contro il Pd, giudicato reo di un pesante ritorno di stalinismo. Pietra dello scandalo: le sospensioni comminate agli iscritti presentatisi con altre liste (come quella Pasquino)alle elezioni comunali. Lo schema di lettura della commentatrice è uno stupefacente sillogismo. Come può espellere i suoi membri un partito che, come si proclama, non è ideologico nè identitario ? E' noto, infatti, che solo entità ideologiche e religiose, perciò sommamente lesive dei diritti individuali, mettono alla porta gli aderenti sleali. Questo non avviene in nessun altra organizzazione, neppure in quelle più laicamente innocue. Se il socio di una bocciofila rovina il campo di gioco e si mette a lanciare le palle in testa a un altro socio, ad esempio, sarà prontamente premiato dal Presidente. Se in un ristorante uno sputacchia sul tavolo vicino prontamente il maitre non solo non lo metterà alla porta ma lo gratificherà di uno sconto. Nelle squadre di calcio, poi, tesserarsi ad altra squadra è il modo migliore per diventare titolare in quella con cui si è a contratto. Ecc. Ecc. Ecc. Ma ci sono altri esempi che calzano a pennello. Se un giornalista contesta Direttore e linea editoriale sarà tosto elevato di grado, tanto più se avrà il buzzo di scrivere per testate concorrenti. Così, infatti, sembra che funzioni a Repubblica, giornale, esattamente come il Pd, nè ideologico nè identitario. Ragionamenti che non fanno una grinza. Specularmente perfetti anche per biasimare l'altro costume in auge nel Pd: quello di non dare la tessera e di impedire di concorrere alla segreteria a gente (come Grillo, ma prima di lui anche Di Pietro e Pannella) alacremente impegnata a gettare valanghe di merda sul Pd medesimo, mettendone alla prova il carattere nè ideologico nè identitario. Se ne dovrebbe dedurre che un partito, essendo, ripeto, nè ideologico nè identitario, non dovrebbe avere nè confini nè vincoli di lealtà. E così le polisportive, i ristoranti, le squadre di calcio, i giornali.... Difficile contestare uno schema di pensiero così rigoroso. L'unico appunto che mi sento di proporre lo traggo dal calendario. Siamo a Ferragosto, e non fa neppure tanto caldo. Non a Febbraio. Solo a Carnevale, mi risulta, 'ogni scherzo vale'. C'era una volta il 'partito che vorrei': adesso scopriamo che non basta neppure 'liquido'. Lo si vorrebbe Carnevalizio. Dove ogni aderente si mette una maschera e poi l'altra e tutti ridono contenti.... In realtà un problema serio da discutere ci sarebbe. Che quel tanto di regole che ci sono vadano rispettate non c'è discussione. La discussione sarebbe invece assai utile per le diverse situazioni di contesto. Per quanto ne so' almeno due casi, quello di Zola e di Marzabotto, sarebbero meritevoli di approfondimento politico prima che procedurale.

10 agosto 2009

Oscar Marchisio


Muore Oscar Marchisio, rapito alla vita a 59 anni, nella sua dimora di San Remo. Trapasso istantaneo. Furto con destrezza. Il ligure l'ho conosciuto all'inizio dei '90, a Bologna. Prima segreteria provinciale del Pds. Segretario La Forgia. Uomo dalle molteplici sfaccettature e dai più svariati interessi. Analisi acute, eloquio brillante. Mai banale. Un 'consulente aziendale' il cui curriculum pesca nelle acque turbinose e creative della generazione del '68. Perciò di formazione per nulla bocconiana, bensì filosofica. Con il marxismo come pietra miliare. Quindi, necessariamente, interprete naturale della post-modernità e del post-fordismo. Infatti le sole indagini interessanti della società contemporanea sono venute da chi veniva da una lettura antagonista della società industriale. Oscar Marchisio lo colloco a fianco di un altro amico scomparso: Mario Zanzani. Identico profilo umano e anagrafico. Capitale umano di grana fine, accumulato nel tempo. Al centro la lettura interdisciplinare delle trasformazioni sociali/territoriali. Ai margini, l'ibridazione dei linguaggi. La musica colta e il Jazz per Mario, la letteratura cyber-punch per Oscar. Entrambi analisti 'operativi', ma di formazione intellettuale. Nel vero senso della parola. Dove questa natura si rivela non nei titoli formali, bensì nel mix dilettantistico-artigianale (proto/post capitalistico) di vita e ricerca, esistenza e riflessione. Imprenditori di sè stessi, tutti e due operano ai confini delle grandi organizzazioni, nell'orlo dove si tessono le transazioni con l'ambiente esterno. Sono uomini-impresa, nella cui attività si mescolano organizzazione/ricerca/expertise. Oscar pendola fra la Cina e la Camera del lavoro di Bologna. Il vortice della vita, ovvero il caso, li porta a Bologna. Solo qualche attimo fa c'erano. Adesso non più. Cosa rimane di questo 'capitale' umano quando arriva il trunk ? Cosa ne sarà dei loro testi, dei loro rapporti, delle loro librerie ? E dei loro blog, soprattutto, che ne sarà ? Questa scrittura coltivata nella solitudine. Nello studio, o in qualche sala d'aspetto, in una camera d'albergo. Postando con altri naufraghi. Perchè a questo penso: il ciber-spazio come una popolazione di naufraghi. Individui-corpuscoli appartenenti a una massa galattica alla deriva. Ultimo post prima del trunk: 24 Luglio, dopo la strage di Viareggio. Saggio sulla cecità dei sistemi tecnologici. Poi il buio. A destra, nella home page, biografia, curriculum vitae, archivio. Varie sotto-sezioni: Mediterraneo, No-Tav, Pianeta Cina, slowmed vs turbochina. Anche "in ricordo": cioè necrologi. Tre persone, per due due delle quali il trunk è datato ad Agosto. Pensateci bene: questo è Agosto. Un bagliore di luce catastrofico. Nella memoria non restano le vacanze, bensì la morte remota e inattesa. In plen air, o in una stanza. E il ciber spazio è ricolmo di doppi fondi: siti commemorativi, blog moribondi e abbandonati come gli animali domestici ad Agosto (ancora lui), blog di defunti, pietrificati al trunk. Perciò eternizzati nel grande cimitero internautico, dove li puoi incontrare solo per caso, a meno di non essere esploratori net-crofili. Cari amici scomparsi, piango la vostra dipartita e tutto quello che ancora si poteva dire/fare/baciare/bloggare. Con voi mi identifico. Lettera senza testamento. Dopo Agosto pioggia e vento per i nati nei '40. Generazione di fenomeni. Animali caldi.

3 agosto 2009

Delitto e memoria


Tutta quest'ansia di cambiare rito non la capisco. Già il fatto che si esprima, di norma, con edificanti pensieri desta sospetto. Più in generale, diciamoci la verità, il 2 agosto è diventato uno di quegli argomenti dove si è molto abbassata la barriera d'accesso, ed è facile assumere la posa del riformatore e/o del censore. Vediamo così direttori di testate locali che si mettono di gran buzzo a suggerire cambiamenti. Sempre nel dovuto rispetto dei familiari (assai meno dei partecipanti assiepati sotto il sole agostano: hic sunt leones). In realtà, col tempo, il rito ha assunto una sua forma/cadenza. Di fatto. C'è la parte formale, e c'è quella reale-sostanziale (e c'è più di una ragione per pensare che i 'familiari' la pensino esattamente come i manifestanti...ha una bella voglia il Guazzaloca a chiedere a Bolognesi di farsi da parte, come è capitato a lui stesso nelle recenti elezioni; sino a chè Bolognesi raccoglie mandato e fiducia dai familiari non ha senso parlarne...). Dopo la maestosa discesa del corteo per Via Indipendenza al seguito dei gonfaloni, la cerimonia tocca il top con il minuto di silenzio. La sua efficacia rabbrividente e la sua mistica sospensione non sono state logorate dal tempo. Anzi, semmai, sono accresciute. Dopo di chè si reitera un singolare, ma nondimeno costante, 'rompersi delle righe'. Gli astanti vengono presi da una sorta di disagio psicologico. Si potrebbe dire: una vera e propria sindrome da inadegutezza. Uno scarto fra il sè ed altro dentro la cerimonia. La gente ascolta di malavoglia lo scampolo finale dei discorsi ufficiali. Una parte comincia a sciamare, mentre il rappresentante del governo viene coperto di fischi ed insulti. Alla vista sembrerebbe una esplosione di 'vaffa' in stile grillista, senonchè ad esserne interprete non è uno scampolo di blog people e di qualunquisti. Trattasi di persone anche mature-anziane, assai civili e impegnate. Galantuomini che di norma non sbraitano (e dai quali uno come Cazzola, che adesso conciona, avrebbe molto da imparare...). Bravi contribuenti rispettosi della legge. Ma che nondimeno sentono il bisogno irrinunciabile di dire pane al pane. Per poi rientrare, mansueti come prima, nelle accaldate dimore. Ho già spiegato, e più di una volta, la ragione di questa insofferenza e qui la ripeto in modo conciso. Durante il minuto di silenzio la 'massa' entra in un processo di sublimazione/purificazione, che la configura come un 'corpo' unitario, intriso di misticismo. L'individuo, entrando in questo corpo, viene liberato della sua contingenza. La 'massa', re-identificandosi, acquista una propria autonomia. Di più: una manifesta superiorità, che la colloca in una naturale opposizione al palco delle autorità e a tutto ciò che le appare come miserando in genere. Il rappresentante del governo è trattato per quel che rappresenta: un ectoplasma burocratico, mentre la 'massa'è un cristallo sublimato di pura sostanza psichica. A maggior ragione se l'individuo officiante ci mette il suo, mostrandosi per quel che è conosciuto. Ora, come richiamato, il rito del 2 Agosto, non è solo quanto previsto dal cerimoniale, ma l'insieme di queste dinamiche di fatto. Interroghiamoci: se ogni anno questo rito è così partecipato, nonostante i richiami preoccupati di zelanti commentatori/suggeritori e ogni altro apocrifo-usurpatore (si pensì che un tizio come Monsignor Vecchi ha infilato nella sua omelia persino la condanna della 'pillola del giorno dopo'....), non sarà anche perchè ha preso questa foggia fattuale ? Dunque perchè si dovrebbe correre il rischio di cacciar via, con la presunta 'acqua sporca', anche il bambino ? Teniamocelo così, dunque. A me piace. E ho ragione di pensare piaccia anche alla gente. Capisco che metta imbarazzo a chi si affolla sul palco, e tanto più a chi è dovuto salirci a forza per obbligo istituzionale (come a Zani). Ma così accade. La dinamica stridente palco/massa è un elemento essenziale di verità del rito. Sopprimere questo conflitto, in una procedura finalmente 'pacificata' e ricondotta alla pura 'forma' (al 'li' mandarinale, cioè alla solennità priva di qualsivoglia contenuto), significherebbe espungere ogni pathos dalla cerimonia. Sia perciò come è. 'Finchè dura', cioè finchè la gente vorrà sfidare il caldo d'agosto per vivere questa peculiare esperienza. Quanto durerà ? Suppongo: il tempo necessario. Che non potrà essere accorciato/deformato da improvvisati registi/scenografi. Per come è sollevato (da Balzanelli, ad esmpio) il tema della trasmissione ereditaria ai nati dopo il 2 Agosto, è una scemenza. Come se esso potesse risolversi abolendo i fischi, cioè togliendo la gente ed altri facinorosi dai paraggi, oppure promuovendo qualche lezione civica nelle scuole. Sul tema ho condotto, tanto per cambiare, numerosi sondaggi. Il 2Agosto, la strage del 1980, è l'elemento più significativo, fra i tanti, dell'identità cittadina. L'espisodio inscritto a tinte più forti nella memoria collettiva. Non di tutti, naturalmente. Ma di quella parte che ancora conta: che ha nelle mani la creta per plasmare il profilo di una identità. La quale, quando assume forme maieutiche, ha sempre un fondo drammatico: una catasta di cadaveri, fango, sangue, orrore. E un interrogativo: 'perchè ?'. L'identità, se è tale, è un lutto elaborato collettivamente, la cui necessità resta viva, vibrando nella corteccia emozionale dei contemporanei. Sempre restando nella sociologia della memoria, possiamo anche richiamare che questa istanza psichica è tanto più viva in quanto è assorbita da coscienze in via di formazione. Cioè in uno spazio aperto alla vita a venire, nel quale, proprio per questo, gli episodi suscettivi di una 'narrazione' possono fissarsi in modo indelebile. Primordiale, appunto. Questo è tipico nell'adolescente e nel bambino che avverte, nei discorsi dei familiari e in quanto gli accade intorno, che qualcosa di straordinario ha squarciato il mondo di vita nel quale si è appena affacciato. Qualcosa che non può ancora 'comprendere', ma che può 'sentire' in via intuitiva. E' stato così anche con la guerra e la resistenza. Quello spazio storico-esistenziale ha continuato a riprodursi sino ai nostri giorni non per la costrizione delle narrazioni ufficiali, ma per l'esperienza vissuta e/o (cio' che è veramente importante) 'avvertita'. Non solo nei 'combattenti e reduci', ma nei nati dei '40 e dei '50: a diretto contatto dei testimoni, ascoltando i loro racconti, respirando il clima residuato dal lungo strascico della guerra (almeno sino alla fine dei '50). Perciò il 2 Agosto resterà vivo nei contemporanei per almeno altri 20/30 anni. Fatevene una ragione ! Ci saranno altre lacrime, altre emozioni, altri fischi. Resteremo ancora insieme per molto. Malgré tout. Tra l'altro, nelle pieghe della memoria, giocano anche le 'lacune' e i 'vuoti'. Cosa che ne articola l'aspetto, al caso, imprevedibile e paradossale. Se non annoio il lettore rammento quanto mi riguarda. Il 2 Agosto del 1980 ero alla stazione. Alle sei del mattino, e probabilmente ho anche incrociato, del tutto inconsapevole, chi ha messo la bomba e chi, alle 10,25 di quella stessa mattina, ne sarebbe rimasto dilaniato. Partivo per Linate, assieme alla findanzata, dove avrei preso un charter per gli Stati Uniti. In quell'epoca - è noto - non c'era Internet e neppure si viaggiava con le carte di credito. Telefonare a casa era un problema, e da casa, non disponendo di un recapito fisso, non potevano chiamare. In viaggio, essendo giovani e avendo molte cose da fare, era raro leggere giornali o guardare la televisione. Perciò venni a conoscenza dell strage solo una settimana dopo. Imparai anche che molti amici e conoscenti che sapevano della nostra partenza avevano contattato tremebondi i nostri genitori per sincerarsi della nostra incolumità. Mai la morte mi è stata più vicino nella più assoluta inconsapevolezza ! O forse è sempre così, almeno fino all'attimo ferale nel quale anche la più piccola discronia è azzerata. Stesso luogo, ma con quattro ore di anticipo. In seguito ho continuato a vivere in questa beata incoscienza per molti anni. Facendo le ferie in Agosto (sempre con viaggi lunghi e avventurosi, sfuggendo ad altre catastrofi - ad esempio: il terremoto messicano, una slavina alle Azorre, diversi incontri rabbrividenti nella giungla guatemalteca) non potevo, come ovvio, partecipare alla cerimonia. La strage era, in certo senso, un evento catalogato nella cronaca cittadina. Una astrazione cognitiva, malgrado ci fossi passato letteralmente 'dentro'. Solo con qualche ora di anticipo. Poi una quindicina d'anni fa, dal '99, per ragioni che non sto ad elencare, ho smesso di fare ferie, e le cerimonie del 2 Agosto me le sono fatte tutte. E' stato come tornare sul luogo del delitto quasi ventanni dopo, ogni volta assieme a tutti quelli che in identica data sono accomunati dal non andare in ferie. [tra l'altro anche questo è un aspetto da non sottovalutare; la massa del 2 Agosto che si sublima alle 10,25 è anche una massa agostana già perequata da un diluente del tutto speciale: l'afa cittadina, come tale letteralmente disciolta nella città, mentre il resto del mondo se la spassa in luoghi ameni...]. Fatto sta che ciò che le circostanze avevano rimosso casualmente è riemerso. Poco alla volta, ma sempre più vivo. Ogni 2 Agosto mi vedo giovane, con fidanzata (altrettanto giovane), mentre carico i bagagli sul treno. Ma vedo anche tutto il resto, quelli che avevano quattro ore di ritardo sul mio viaggio per New York. Ne sento alitare il mana. Nel minuto di silenzio è come se le tante vite prallele, le innumerevoli e casuali direzioni della vita si trovassero. Ab origine, nel principio di indeterminazione. Il 2 Agosto, in effetti, è anche questo: un flash back analettico che si ripete. Un bagliore nel quale tutti gli individui presenti si ri-vedono, come nel giorno del giudizio. Succo finale. Questo rito è tremendamente vivo. E lo resterà ancora a lungo. Le mort saisit le vif. E le vif saisit le mort. E' questo abbraccio che crea sgomento. Questo rapimento psichico, ancora ben lungi dall'essere addomesticato nelle vuote cerimonie burocratiche. Vien da pensare: non è che è proprio questa la ragione per la quale tante voci 'responsabili' ci fanno ogni 3 di Agosto (e da qualche tempo anche da prima) il sermoncino sul bon ton ?

29 luglio 2009

L'archiviazione dei corvi

Ci sono chicche che non si possono lasciar perdere, come le motivazioni con le quali la Procura bolognese ha archiviato il caso 'corvo' ed annessi. Nella sostanza il 'non luogo a procedere' troverebbe giustificazione nel fatto che i risultati elettorali, sia al primo turno che al ballottaggio, darebbero conto del carattere innocuo della trama ordita da Vannini e soci ai danni di Cazzola con quella grottesca irruzione nel casellario giudiziario. Non sono esperto di sentenze, ma il caso sembrerebbe instaurare una sorprendente e paradossale preminenza della logica induttiva su quella formale deduttiva, della sociologia empirica sul normativismo giuridico. Con il risultato di entrare nella più assoluta opinabilità. Basta considerare la situazione 'a rovescio'. Immaginiamo che al ballottaggio ci fosse andato Guazzaloca e che poi lo avesse anche vinto. Cosa se ne sarebbe dedotto ? Il rinvio a giudizio di Vannini e la sua conseguente condanna ? Peraltro, stando al caso, è ben probabile che un effetto il Vannini l'abbia ottenuto: di penalizzare il suo stesso campione. Ora delle due l'una: o il fatto non sussiste, o il reato non è avvenuto. Nel mio dilettantismo non riesco ad immaginare altra motivazione logicamente sostenibile. A meno di non introdurre, fra le tante attenuanti previste dall'ordinamento, una soluzione drastica che più non si può: l'archiviazione per compassione. Essendosi il reo procurato da sè medesimo la sua pena, non solo perseguendo l'inverso del suo scopo, ma esponendosi al pubblico dileggio per manifesta imperizia e goffaggine. In conclusione questo mi sembra un caso nel quale l'inquisito ha trovato il suo 'giudice naturale'. Grottesca iniziativa, grottesca archiviazione. Nel Bolokistan sia ama molto scherzare. Una pacca e via....

27 luglio 2009

il partito degli aggettivi

Il Partito degli aggettivi (26 Luglio 2009) Ormai asceso a una levità letteralmente celestiale, dove contrastano, come in una tela del Reni, lapislazzuli vestimentari, cirri e nembi cumuliformi, filtrati dalle più varie luci del giorno, toni e nuances per tutti i palati. Un partito, letteralmente soprannumerario, dove ogni cosa è riconducibile a una questione di stile, o di gusto. Per sua natura indecicidibile. E perciò sempiternamente 'contendibile'. Perfetto per una partito che applica la democrazia a sè stesso con una pignoleria degna della corte dei conti. Facciamo due esempi a caso. La Bastico esordisce in gara affermando che è per un 'partito accogliente', mentre il suo contendente è per un 'partito combattente'. Leggendo fra le righe sembra poi di capire che il partito accogliente inclina al femminile, è aperto e adotta il 'per' anzichè il 'contro'. Si potrebbe anche aggiunere che è liscio (comunque gassato il giusto, come la Ferrarelle), mentre l'altro è scabroso, rotondo anzichè irto, colorato invece che grigio, temperato (come un clavicembalo) anzichè rigido (come una grancassa), ecc. ecc. ecc. Sabattini (tanto per chiarire che anche nei dintorni non s'è da meno) se la prende coi sindaci che volevano contestare Maroni all'atto di prendere per le mani l'organo Hammond in quel del Porretta Soul Festival. Del tutto in secondo piano la questione di merito: i vincoli del patto di stabilità che impediscono ai comuni di investire ciò che hanno in cassa. Ciò che appare - e che alla fine conta per lo sprovveduto osservatore - è una querelle intestina, dove è in gioco una questione di stile: quale sia il comportamento da tenere nei rapporti inter-istituzionali e quale posa i primi cittadini debbano assumere una volta indossata la fascia tricolore.... Le differenze sono una ricchezza. Come non essere d'accordo con una frase che è diventata segno di buona educazione ? Sino a non molto tempo orsono si diceva che stava prendendo piede il malvezzo della 'personalizzazione politica', cioè la tendenza a soggettivizzare i contrasti politici. Ormai è chiaro, invece, che si è transitati a una nuova fase, nella quale, sono piuttosto i contrasti personali che si politicizzano. Cuius regio (o aspirante tale) eius religio. I quali contrasti possono darsi, in linea di massima, secondo due varianti. In un caso come una faida barbaricina (senza volere insinuare nulla a proposito di Arturo Parisi, solo perchè è di Sassari): un odio ancestrale destinato a non placarsi mai. Necessariamente con ampio versamento di sangue. Nell'altro caso come una differenziazione chiaroscurale, come in un concorso canoro. In un caso sono in gioco questioni di sangue e parentela. Il conflitto deve sempre restituire l'idea drammatica che possa finire con decapitazioni e garrotature. Nell'altro sono in campo questioni di stile. Un torneo di aggettivazioni, dove conta l'estetica schermistica e nel duello ci si ferma al primo graffio (chiedendo anche scusa). A parte queste differenze, comunque non da poco, c'è qualcosa che accomuna le due varianti e che ci rinfranca. In entrambi i tipi di conflitto nessuno dall'altro vuole (può) separarsi. Chi ama la faida (cioè la lama) non può immaginare un mondo che ne sia privo, senza più nessuno nel quale piantare il ferro. Sono un emblema di questa situazione D'Alema e Veltroni. Potreste mai immaginare un luogo nel quale i due non duellino ? Ve li immaginate davvero separati o ridotti al silenzio ? Chi ama la scherma (cioè le aggettivazioni differenzianti e chiaroscurali, la veronica anzichè l'affondo) per definizione non può darsi se con nell'immanenza comparativa inter-soggettiva. Perciò la scissione è scongiurata. Mentre ci sarebbe da temere se i contrasti fossero davvero di linea politica, se non di cultura politica. In estrema sintesi: sembra che il partito degli aggettivi sia, nella sua paradossale e volatile contingenza, il prezzo necessario da pagare per stare insieme. Seguendo la falsariga un ulteriore commento. Bersani, a favore del quale ho fatto outing discettando sulla Lega, afferma che questo sarà quel congresso fondativo del Pd che sino adesso non c'è stato [e subito Mauro Zani, sul suo blog, ha tratto spunto per segnalare che qualcun'altro, cioè lui stesso, a suo tempo, l'aveva già detto]. Osservazione incontestabile. Il Pd è nato da una primaria, meglio da una primipara, senza alcun travaglio, nè una levatrice congressuale a seguire l'iter del parto. [a pensar meglio c'è anche da dubitare che nel concepimento sia intervenuta l'inseminazione di un membro virile, cioè un padre-capostipite fondatore, non è da escludere un caso di partenogenesi, magari con l'ausilio dello spirito santo...]. Potremmo anche aggiungere, cambiando metafora [sono in linea: nel 'partito degli aggettivi', una inesausta metaforologia è il mezzo corrente di comunicazione...], che la 'fusione' è avvenuta su due piani: dall'alto, per plebiscitazione del leader; dal basso, per certosina composizione del puzzle Ds-Dl. Come molti hanno detto, è stata una fusione 'fredda', malgrado il caldo entusiamo dei partecipanti. Ora, mi sentirei di dubitare che questo congresso sia davvero 'fondativo'. Almeno nel senso che un tempo si attribuiva al termine e secondo note fenomenologie: un consesso di delegati, cioè di rappresentanti di qualcosa che li trascende, che si ritrova in un luogo (magari dopo essere appena usciti da un altro, come nelle fondazioni 'per scissione')e approva un progetto meta-storico, fra alte grida di giubilo e in un clima euforico composto di speranze radiose e di determinazione combattente. Perchè ? Perchè la fondazione è già avvenuta, nel bene come nel male. Il partito degli aggettivi è già, nella sua versatile leggerezza, la plastica testimonianza di un insieme di legami e inviluppi dai quali è molto difficile dissociarsi. Siccome sono state bruciate le navi e fatti saltare i ponti appena guadati, non è più possibile tornare indietro. Fatto positivo [mentre altra cosa è fare terra bruciata davanti a sè, cosa nella quale, anche, il nuovo partito si è ben impegnato sino ad ora]. Si potranno aggiungere compendi retorici. Dettagli comunque, per quanto recitati con grande trasporto. Però questo congresso sarà fondativo in un senso particolare: ratificherà una mutazione già avvenuta. Sarà un partito di personalità politiche, cioè una oligarchia di capicorrente. Non il risultato di una giustapposizione di due corpi solidi, quali erano i partiti di provenienza, ma la ri-composizione di una scomposizione per vie personalistiche. Sarà cioè, finalmente, una 'fusione calda', per frantumazione degli atomi originari. Basta guardare gli schieramenti in campo. Bindi, Prodi, Letta con Bersani, assieme a D'Alema. Fassino, Cofferati, Rutelli e Marini, con Franceschini, assieme a Veltroni. Disposizioni situazionali, perciò reversibili. Infatti molti di coloro che adesso stanno sulla stessa cordata, prima erano fieramente contrapposti. E viceversa. La cosa può non piacere, ma è difficile che un partito 'democratico' abbia altra forma. Oggi un partito carismatico è impossibile senza un leader che abbia anche i soldi per imporsi come tale. Ci sono, è vero, partiti uni-personali (come l'Idv) ma la loro esistenza è effimera. Il partito iper-democratico, basato renaniamente su un permanente plebiscito, quale intendeva essere il Pd, è crollato miseramente qualche mese orsono. Conviene fare di necessità virtù, cioè essere realisticamente democratici.
 
   
 

Note pre-congressuali

(di Fausto Anderlini)

 

Premessa: ho scritto queste note subito dopo le elezioni di Giugno. Dovevano servire, valgliate da altri, per un ipotetico documento di discussione da inoltrare in una riunione di "Fare un forum per uscire dal cul de sac". Una copia l'ha avuta Virginio Merola, che poi ne fa anche fatto un uso appropriato in alcuni suoi interventi.

 

Falsi problemi

 

Il dibattito congressuale deve innanzitutto stabilire una chiara gerarchia di problemi.

Fondamentale, per perseguire lo scopo, è liberarsi dalle scorie di un dibattito sterile e recriminatorio, sovente preda di dietrologie personalistiche.

 

E’ bene chiarire subito che il governo Prodi non è caduto per l’improvvida nascita del Pd e men che meno per una cospirazione di gruppi dirigenti. L’accelerazione nella costituzione del Pd era necessitata dalla crisi profonda (e irrimediabile) nella quale era rapidamente sprofondato il governo dell’Unione. Semmai essa ha salvaguardato i partiti costituenti, come dimostrato dal 33 % guadagnato nelle elezioni del 2008, da una diaspora che avrebbe potuto essere devastante. 

 

Allo stesso tempo sarebbe fuorviante addebitare l’autodafè di Veltroni alla sola pressione di oligarchie invidiose (del 33 % e della straordinaria prova mobilitante del Circo Massimo). Ci sono varie ragioni. Alcune fisiologiche: la naturale decompressione dopo una campagna vissuta all’insegna di una grande spinta rigenerativa e costituente, con la conseguenza di un vittorioso redde rationem nel centro-sinistra, ma anche di una sconfitta di schieramento che ha subito messo in risalto l’isolamento del Pd. Il Pd è rimasto pericolosamente incerto circa il profilo oppositivo da assumere, scontando la persistenza di un centro moderato (l’Udc, verso cui sono confluiti voti dell’Ulivo, a compensazione dei flussi in ingresso dalla sinistra radicale) e la compresenza di un alleato infido e sfidante come l’Idv. Altre ragioni sono da ricercare nella tumultuosa convergenza  di alcune situazioni critiche: dalla questione morale apertasi in seguito a diverse, e confuse, azioni inquirenti in varie zone del paese, alle crisi rovinose dell’Abruzzo e della Sardegna. Ci sono tuttavia altre ragioni ben più profonde: in primis l’irrisolta configurazione organizzativa del partito e l’indefinitezza del profilo identitario. Non è un caso che a fare da detonatore di questo groviglio di situazioni sia stata la vicenda Englaro. Essa ha messo a nudo un’afasia che aveva la sua causa in una mancata sintesi culturale a proposito del rapporto fra la laicità della politica e lo statuto pubblico delle credenze religiose. Dunque, fra l’altro, un problema di identità. 

 

In effetti, rebus sic stantibus, cioè la persistente condizione di friabilità dei presupposti identitari ed organizzativi del partito, le periodiche crisi di gruppo dirigente sono destinate ad essere una costante della vita politica nello schieramento riformista. Con una nevrotica e occasionale alternanza, nel reggimento politico, di momenti pluralistico-consensuali e forzature di segno monocratico. Le ragioni per le quali i diversi leaders sono stati triturati con grande rapidità non ha a che vedere (almeno non solo) con l’antropologia endemicamente personalistica della sinistra, bensì    con la labilità dei fondamenti costitutivi dei soggetti che hanno attraversato questo ventennio per poi convenire nel Pd.

 

Il problema del Pd è perciò la compiuta definizione del suo profilo identitario: quali sono i valori fondamentali che lo innervano, di quale progetto di riforma è portatore, quali soggetti sociali vuole rappresentare (e quali contrastare), da quale storia proviene, attraverso quali forme organizza la partecipazione politica.

 

Questi aspetti dirimenti non possono essere surrogati, come è stato fino ad oggi, da scorciatoie organizzative o politologiche.

Ad un certo punto, in mancanza di ogni altro riferimento o nella labilità più assoluta degli orientamenti, è sembrato che l’identità del partito si potesse riassumere nel ruolo taumaturgico affidato a una procedura di selezione della leadership (le primarie). Un partito che affermava la sua democraticità applicandola a sé stesso, in via autistica, con una enfatica e paradossale sottolineatura della ‘contendibilità’ della leadership. Naturalmente le primarie in sé sono un importante momento di democrazia ‘elettorale’, ma i risultati possono essere anche gravemente controproducenti se difettano le strutture di ‘lealtà’, il cui spessore rinvia, come ovvio, a problematiche identitarie sostanziali, per nulla procedurali.

 

Per contro anche il dibattito che vede opporsi una vision coalizionale del Pd ad una mission maggioritaria dello stesso, rischia di assumere una impropria valenza ideologico-identitaria. Ancora un surrogato politologico, a fare le veci di un assente legame identitario. Se con orientamento ‘maggioritario’ si intende la rivendicazione di una pretesa egemonica, è evidente che tale vocazione è una condizione imprescindibile per un partito che non voglia ridursi a un meschino traccheggiamento. L’idea di rimettere in piedi a forza una riedizione dell’Unione, tanto più dopo il clamoroso fallimento del governo Prodi, è paradossale. Cosiccome quella di resuscitare l’Ulivo. Il Pd è il compimento dell’Ulivo e non si vede quale ratio sostenga una visione karmica (o chimico-alchemica: liquido-gassosa) nella quale il Pd dovrebbe periodicamente ri-disciogliersi nel suo ‘brodo primordiale’, per poi ricostituirsi, e nuovamente sciogliersi…. Nello stesso tempo è evidente che la vocazione maggioritaria deve comunque fare i conti con la realtà, nella quale la coalizione, ovvero una politica delle alleanze, può essere non solo necessaria, ma anche desiderabile. Non può cioè degradare a una forma autistica e, al limite, delirante. Nel fare coalizione sarebbe già molto, se non tutto, riuscire a posizionare il Pd come un pivot indiscutibile, cioè maggioritario. Nel 2006, infatti, tale pivot mancava: sinistra radicale, Ds, Dl e centristi erano raggruppamenti di peso simile. Di qui una intrinseca instabilità politica. A maggior ragione in presenza di un premier coalizionale, senza un partito alle spalle, necessariamente debole. E’ vero che per due volte è riuscito il ‘colpo’ (nel ’96 e nel 2006), ma non ci sarà una terza volta.

 

Analoghi argomenti possono essere avanzati a proposito dell’orientamento in materia di legge elettorale. A prescindere dal fatto che tale materia, allo stato attuale delle cose (circostanza verificata anche dal freschissimo fallimento referendario) è diventata indisponibile per altri che non sia la maggioranza parlamentare vigente, l’identità del partito non può certo definirsi per rapporto ai pregi/difetti di un modello elettorale: se proporzionalistico, maggioritario o comunque bipolare. Così si rischia di transitare dal procedure alle formule. Il pregiudizio politolologistico, cioè la pretesa di far discendere la configurazione dei soggetti politici in via diretta dal sistema istituzionale/elettorale, è stato una maledizione che ci ha accompagnato per quasi un ventennio. Quale che sia il sistema elettorale  il Pd deve essere sé stesso. Bisogna distinguere fra un bipolarismo formale (o coattivo) e un bipolarismo sostanziale. E’ a quest’ultimo che bisogna tendere, quale che siano le cornici legislative.

 

 

Fare un discorso chiaro sull’uguaglianza

 

Ci sono tre nozioni dell’uguaglianza: della dignità, del reddito, delle chances. Bisogna riconoscere che il programma fondamentale del Pd, con il suo squilibrio sulla nozione radico-liberale, è una fonte di confusione. Senza una limitazione delle sperequazioni, cioè senza redistribuzione, le pari opportunità sono solo retorica. Un partito a servizio di chi ha il dono del talento ? Un partito ‘meritocratico’ ? Talento e merito si remunerano in sé. Decisivo è stabilire se si remunerano anche ‘per sé’, incrementando la differenziazione. Ovvero se sono posti a servizio del legame e della responsabilità sociale. Oggi in realtà rischiamo di essere prigionieri di una visione scolastica della meritocrazia e dell’individualismo, mentre il capitalismo mediatico ha elaborato una pratica stocastica della ‘fortuna’ capace di sedurre (come il lotto e San Gennaro) una plebe instupidita. Thomas Geiger parlava di ‘Individuo-massa’. Si tratta di passare all’individuo sociale, che realizza socialmente la sua individualità. Neppure il merito al servizio del bisogno secondo la sbrigativa formula del modernismo catto-socialista degli ’80, una visione, cioè caritatevole e oblativa del merito, bensì la promozione sociale delle possibilità di crescita individuale insite in ogni individuo. Il Pd non può finire identificato come un canale di promozione dell’élite, bypassando il cordone

storico con le lotte secolari per l’emancipazione.

Se è vero che siamo entrati in una fase di crisi di taluni dei fondamenti del capitalismo globalizzato (il limite ambientale, il consumo a debito, una inaudita sperequazione della ricchezza, la predazione finanziaria, l’esautoramento della democrazia); se è vero che va determinata una riconversione dalla crescita allo sviluppo, cioè un riorientamento dei fini e delle modalità del processo di accumulazione; se è vero che questa transizione sarà convulsa, drammatica, per nulla instradata lungo l’irenico percorso dello stato stazionario e della decrescita, bensì lastricata di catastrofi naturali (ed umanitarie), fondamentalismi, tentativi autoritari, conflitti identitari caricati di inaudito rancore; se è vero, per quanto ci riguarda da vicino, che il regime post-democratico sarà di lungo periodo, almeno se sarà lasciato libero di agire incontrastato 

allora diventa fondamentale affermare la propria identità: chi siamo e da dove veniamo, dove vogliamo andare, verso quale modello di società, con quali soggetti di riferimento.

 

Occorre perciò tornare sul ‘programma fondamentale’, arricchendolo di contenuti più densi democratici, socialisti e comunitari. Portare alla luce le radici mnemoniche profonde delle culture riformiste, il timos di lunga durata del processo umano di emancipazione. Di quale pretesa di risarcimento il Pd vuole essere il testimone ? Quale ‘rabbia’ intende raccogliere nel proprio motore per sostenerne la spinta orientata al futuro ?

 

Assumere in ‘interiore homine’ questa necessità significa affrontare da un punto di vista sostanziale il problema della rappresentanza e del gruppo dirigente. Oggi la classe politica è fatta segno di un discredito generalizzato, e naturalmente la più colpita è la sinistra, proprio perché per essa il tema della rappresentanza, con in suoi correlati etici, ha una rilevanza che è sconosciuta alla destra. Bisogna dire la verità. Oggi siamo in una fase nella quale la classe politica (e gli aspiranti a farne parte, tanto più quando vorrebbero essere spressione di una società civile incontaminata) più che ‘rappresentare’ tende a ‘ripresentare’, meglio a ‘ripresentarsi’. Ma rappresentare vuol dire innanzitutto ‘mettersi nei panni’ dei rappresentati, incarnarne la condizione esistenziale, sia materiale che espressiva. Ed anche ‘raccontare storie’, nelle quali le persone possano riconoscersi, perché le riguardano. Non ogni storia, ovvero ‘storielle’, bensì quelle inscritte nell’ansia umana per la libertà, l’emancipazione, la realizzazione, l’eguaglianza. Esattamente come sanno fare i grandi attori, i quali sanno immedesimarsi, materialmente e psicologicamente, nei soggetti.  Non è una questione di reddito (anche se ha una sua parte), ma una questione di ‘stile’. Come fa un partito identitario, cioè di valori e ideali, non di meri interessi cetuali, a non avere un suo stile ?

 

Il Pd ha un problema di classe dirigente ben più sostanziale di quello esibito dalle pantomime e dalle baruffe che vorrebbero opporre oligarchie (e gerontocrazie) a rivoluzioni generazionali di improbabili giovani turchi. Occorre definire con precisione lo stile (il gentleman democratico, l’unica aristocrazia legittimata). Quindi legare la promozione di una nuova classe politica a un investimento di lunga durata, avente innanzitutto nel partito il suo centro di gravitazione. Quadri giovani, certo !, ma che spendano almeno dieci anni della loro vita nel processo di costruzione/radicamento del partito. Non di raiders che profittano delle primarie come fossero un ottovolante, una giostra, dove chiunque ha una fiche, a prescindere da ogni altro valore, può mettere a segno con un colpo fortunato la propria aspirazione a entrare in una classe politica (peraltro detestata sino a un attimo prima).

 

Quale blocco sociale

 

Nelle elezioni del 2008 il Pd ha sfondato nelle città e nei grandi ambienti urbani in genere. La sua proposta ha intercettato l’attenzione di molti ceti urbani, anche dell’iper-terziario. E’ inesatta la rappresentazione caricaturale di un Pd partito del ‘pubblico impiego’. Non c’è dubbio che il Pd (specie alla luce della strepitosa campagna condotta da Veltroni) ha saputo interpretare elementi strategici di modernità sociale. Però ha subito una sconfitta altrettanto pregante nei territori, negli ambiti provinciali e nelle stesse periferie urbane. Ha cioè subito la penetrazione della destra non solo nel ‘lavoro autonomo’, ma anche in vasti strati popolari. Dati alla mano si può dimostrare come il Pd ha non solo realizzato una performance limitata presso gli operai (problema di data non recente), ma ha subito una violenta inflessione (soprattutto) presso il lavoro precario.

Questo dualismo si è replicato (aggravandosi) nelle recenti elezioni europee e amministrative. Il Pd ‘tiene’ (con fatica) le realtà urbane over 15.000 (anche nel nord-est), ma cede clamorosamente nel territorio. Anche in Emilia-Romagna (ma anche in parti delle Marche e della Toscana) la Lega ha dilagato, talchè essa è oggi una forza non più volatile, bensì radicata nel territorio. In questo spostamento a destra dei ceti popolari (e delle popolazioni territoriali) giocano circostanze note: il big-push dell’immigrazione e l’insicurezza, enfatizzate, anziché lenite, dall’insicurezza economica e dalla prospettiva di un benessere non solo minacciato, ma effettivamente decrescente. Ma la destra ha potuto penetrare con tanta più facilità non trovando una adeguata potenza territoriale (quindi socio-culturale) della sinistra a fronteggiarla.

 

Eppure questo è il problema sociale e programmatico del Pd: unire i ceti moderni che chiedono spazio e protagonismo ai ceti popolari (tradizionali o di nuovo conio) che chiedono rassicurazione  e redistribuzione delle chances sociali. Offrendo una identità che faccia da collante alle differenze.

 

Di questo il Pd ha pagato dazio: di porsi come un partito socialmente disinsediato, che recide radici e contatti con mondi sociali per involarsi in un progetto di modernizzazione totus politicus. Un riformismo senza sostegno sociale (senza popolo), come si è evinto nelle due esperienze di governo (e dal quale Reichlin ha più volte messo in guardia).

 

Leggero/pesante

 

O altrimenti detto volatile o insediato. Antinomia ferale. Perché di entrambi ci sarebbe bisogno, in una possibile coesistenza o, se possibile, in una sintesi innovativa. Un partito capace di reggere la sfida delle periferie territoriali (rese ancora più vaste, come plaghe, dalle gerarchie create dalla globalizzazione) affondandovi le proprie radici, e nello stesso tempo agile al punto di allargare senza remore le posizioni nei centri urbani. La risoluzione del dilemma organizzativo è tutt’uno con quella del blocco sociale. Un partito capace di dialogare (e di offrirsi come canale di promozione) con la neo-borghesia post-moderna, ma con le radici (e un programma) ben saldi nelle classi popolari. Di questo duplice fronte sono del resto una icastica esemplificazione le sfide elettorali sofferte dal Pd: la Lega sul territorio, Idv, grillisti, ma anche liste civiche sparse un poco ovunque nelle realtà comunali. Ovvero: la propria scarsa affidabilità sul territorio, e la scarsa affidabilità delle aggregazioni critiche post-moderne nei centri urbani. Per andare incontro agli uni non si possono tralasciare gli altri. C’è una differenza radicale fra il capitale sociale di derivazione storica (come sindacati e cooperative), che ha nel partito il proprio fondamentale supporto ideologico-politico, dal quale discendono cospicui riscontri fiduciari (sia negli ‘altri’ che nelle istituzioni), e il capitale fortemente ‘individualizzato’ su aggregazioni civiche, professionali o comitatistiche. Il quale ultimo ha nella sfiducia programmatica e nel rifiuto della delega il proprio motore. Se quest’ultimo non può non essere considerato come oggetto di attenzione, è anche vero che se si abbandona il primo non si va da nessuna parte, se non all’inferno. Ma questo è un tema dirimente per il discorso sull’Emilia-Romagna.

 

Vero è, parafrasando il motto faustiano, che se due anime albergano nel cuore del Pd, nessuna dall’altra si deve separare, anche se lo vogliono.  Diciamola così: dopo aver fatto un passo avanti, con la prima performance cositutiva del Pd, e senza negarne il significato innovatore, occorre fare due passi indietro. Occorre cioè liberarsi dell’aura illusionistica del ‘partito liquido’, per tornare a radicare sul territorio una ‘organizzazione’. Pure in una necessaria pluralità di modelli territoriali, lavorare a un partito socialmente e territorialmente insediato. Democratico ma agguerrito. Passare da una fase entropica e implosiva, a una fase orientata dall’accumulo di energia. Capace di reggere in un periodo storico che sarà prolungato e convulso. A chi pensa che questa possa essere una ‘restaurazione’ si può opporre la considerazione (puramente difensiva) che nulla del passato può essere re-instaurato. Ma si può anche avanzare l’ipotesi (più volte verificata nella storia) che spesso le vie dell’innovazione (e del futuro) si aprono anche andando idealmente a ritroso. D’altro canto non prende forse corpo la ‘riforma’, proprio nei suoi risultati inediti e inattesi, da un tentativo apparentemente patetico di ripristinare qualcosa che è andato snaturandosi ?

 

 

Il Pd in Emilia-Romagna.

 

Il modello social-democratico era composto di vari elementi: economia sociale cooperativa, sindacato territorializzato, welfare locale, piccole imprese e loro articolazioni categoriali. Tenute insieme da un partito, ovvero dal primato della politica. Il Pd è sorto come tentativo di fusione fra questo corpo politico-sociale e le esperienze, assai più frammentate, del cattolicesimo sociale e del dossettismo in particolare. Il problema è che la fusione (fredda o calda che sia stata) è avvenuta attraverso una vera e propria rimozione mnemonica e lessicale. Un partito né socialista, né cattolico-democratico. Senza una identità. E alla fine senza neppure il rispetto delle proporzioni. Se è vero che il modello della socialdemocrazia emiliana era da tempo compiuto e insidiato da  problematiche ‘sfidanti’, è altresì vero che le innovazioni avrebbero dovuto incidere su quel corpo, riformandolo, non porsi al di là di esso. Di qui una pericolosa decomposizione dei ‘residui’ in un contesto di ‘evaporazione’ politica. Una politica volatile  basata su pratiche teatralizzate di formazione di leadership intrinsecamente ‘leggere’ e ‘liquide’, si è sovrapposta alla frammentazione del corpo solido del passato. Il rischio di una radicale incoerenza è alle porte.

 

Ora è vero che la classe amministrante non può surrogare il partito territoriale, tanto più quando originante da processi di selezione altamente stocastici. Nello stesso tempo il network del capitale sociale non può creare da sé ‘coesione sociale’. Senza la mediazione del partito politico – un partito innervato nella società, non un mero ‘comitato elettorale’ pluri-localizzato – il sistema del capitale sociale non può originare la ‘fiducia’. Se il Pd perde primato e capacità egemonici, sindacati e cooperative non reggeranno a lungo a tendenze decompositive, particolaristiche e corporative.

 

Il Pd in emilia-romagna è la congiunzione fra una storia quantitativamente prevalente – quella inscritta nel modello social-democratico – e una storia qualitativamente rilevante – il comunitarismo di matrice cristiana. Queste storie hanno alle spalle una potenza e un radicamento senza la quale non si può andare verso il futuro. Nello stesso tempo sono storie peculiari a questa regione, non ritrovabili altrove (almeno nelle stesse forme e con la stessa intensità). Sono il perno dell’identità del Pd emiliano-romagnolo, cioè della stessa identità regionale/territoriale. Per essere più precisi: se è vero che tutte le culture riformatrici hanno pari dignità è altresì vero che il loro peso è variabile. Il comunitarismo cristiano è una forza vitale che può essere sintetizzata nel calco prevalente del blocco social-democratico e nella sua costituzione laica. Ma l’innesto non può avere successo se questo stesso blocco non avvia una propria interna auto-riforma, trovando nel dispiegamento di una piena democrazia sociale una nuova spinta capace di trarlo dai rischi del burocratismo e del corporativismo. Ritrovando, in sintesi, la forza delle proprie radici, ravvivando il fascino di una Welthanscauung in parte degradata a rendita di potere. Come ? Basta pensare a come la cooperazione sociale può essere reinventata, ad esmpio, a proposito del lavoro precario.

 

Il modello federale, se ha una prospettiva parte da qui. Non da discentramenti procedurali, bensì dalla rivendicazione di una identità propria nella più vasta identità nazionale del Pd. E neppure da improvvisate esumazioni di geo-politiche improvvisate: come un ‘partito del nord’, un ‘lombardo-veneto’, un’Italia etrusco-appenninica e così via. Le Italie, come disvelano per l’ennesima volta le elezioni, sono due: centro-nord e centro-sud. Al di sotto di queste stanno i modelli regionali. L’Emilia è una regione del nord, ma con una propria distintività e cultura. La quale va aggiornata, ma sempre nei termini di una ‘grande narrazione’. Non vorremo certo che arrivi qualcuno da fuori a rivendicare qualcosa che è andato dimenticato, facendola propria e degradandola !

 

 

 
 
 

INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

Come raggiungerci: consulta la mappa

Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)