18 febbraio 2010

Sinistra civica ?

Sinistra civica ? Che cos’è o possa diventare nessun lo sa, men che meno chi ne parla. Prosaicamente potrebbe incarnarsi in più cose: l’ennesimo cambio di nome del Pd (ad esempio con la riproposizione di un domicilio civico-locale, come fu in, età classica, quello delle Due Torri), l’ennesima proposta di una lista alleata da (supposte) posizioni di forza al Pd, l’ennesima insorgenza rivoluzionaria di ‘società civile’ contro partiti desolatamente incapaci di produrre sintesi politica. Etc. etc….. Deja vu. Soluzioni anche troppo sempliciste. Tali da far torto anche all’intelligenza di chi solleva il problema. Problema, in ogni caso, impellente: come produrre un rinnovamento di classe politica e di progetto. Un mutamento radicale, innalzandosi, come per contrappasso, dalla causale mediocrità della vicenda Delbono. Davvero segnaletico di una discontinuità, non meramente incrementale. A parte Zani, che ha enunciato per primo le due misteriose ‘parole chiave’ (‘sinistra’ e ‘civica’, senza peraltro offrire indizi più che evocativi), è stato Cacciari, con la fulminante capacità di sintesi che gli è propria, a richiamare il significato di una esperienza suscettiva di dare una forma un poco più concreta alla questione. Quella della lista del ‘Ponte’ lanciata nelle amministrative di Venezia del 1990. Una traccia che conviene seguire nel dettaglio, alla ricerca di qualche insegnamento che possa rivelarsi utile. A quell’epoca, del resto, chi scrive collaborava assiduamente con il Gramsci veneto (come membro del comitato scientifico), il quale aveva in Umberto Curi un alacre organizzatore e in Massimo Cacciari una guida più che intellettuale, ovvero carismatica. Attorno all’istituto veneziano gravitavano numerose personalità: docenti dello Iuav, come Tafuri e Dal Co, e dell’università di Padova (fra i quali Duso, Brandalise, lo stesso Curi), ex-dirigenti di rilievo del Pci veneziano, come Chinello, economisti (come Rullani), ricercatori dell’Ires Cgil (come Anastasia), e numerosi giovani intellettuali (ricordo Luca Romano da Vicenza e Renzo Guolo, da Treviso, ora acuto specialista di islamismo sulle pagine di Repubblica). Un parterre di esperienze e specialismi di notevole spessore, ma anche di individui politicamente impegnati (Cacciari stesso era reduce da due legislature come deputato Pci). Tutti nel fiore dell’età. Orbene fu proprio in quell’Istituto Gramsci che la lista del Ponte fu concepita. La lista non fu frutto di improvvisazione e di una mera ‘libido candidandi’, bensì di un lavoro preparatorio, politico e programmatrico, estremamente serio e durato almeno tre anni. Un lavoro collocato dentro la crisi finale del Pci ed il travaglio della nascita del Pds. Alla ricerca di soluzioni nuove, teoriche e, insieme, di radicamento politico. In quella proposta lo spazio civico è individuato non come un ridotto locale, un rifugio pragmatico e provincialistico alla crisi della politica. Ma come il laboratorio di soluzioni politiche più generali/esemplari. E’ all’interno di questo lavoro di scavo e preparazione programmatica, ad esempio, che viene precisato per la prima volta quel concetto di ‘Idea della città’, che farà da battistrada a numerose altre esperienze. In effetti quell’episodio fu il primo segnale di un ciclo politico che avrebbe poi caratterizzato l’epopea dei sindaci degli anni ’90. Cacciari , che era il capolista candidato a Sindaco di quella lista perse le elezioni (il Comune finì amministrato da un pre-posto tardo democristiano, con il sostegno del Psi di De Michelis), ma ebbe modo di rifarsi rapidamente nella sfida del ’93, vincendo il duello con il candidato leghista (tal Mariconda, che fu imbrigliato e quasi plagiato da Cacciari), diventando alfine Sindaco di Venezia. Va ricordato che in quello stesso anno salgono al soglio municipale Bassolino (a Napoli), Orlando (a Palermo), Castellani (a Torino), Rutelli (a Roma), Sansa (a Genova). Tutte le grandi città metropolitane, ad eccezione di Milano, vengono conquistate dalla sinistra di nuovo conio civico e si pongono le premesse che porteranno alla creazione dell’Ulivo ed alla vittoria nelle politiche del ’96. In sintesi nel ’90 nella Serenissima viene gettato il primo seme di un’intera stagione politica. L’esperienza veneziana, inoltre, verrà replicata con successo in diverse città del ‘veneto bianco’ dimostrando che era possibile infrangerne il muro (anche Fistarol, sindaco a sorpresa di Belluno, veniva dall’Istituto Gramsci).


Qual’era l’essenza dell’operazione il Ponte ? Anche favorito dal fatto di avere da poco rinverdito i ricordi col Cacciari medesimo, direi questo: la funzione-guida, di leadership politica, esercitata in via diretta da un gruppo di intellettuali politicamente orientati. Nella quale sono coinvolti, a seguire, il partito e le associazioni storiche del movimento operaio, con le loro organizzazioni territoriali. Non si tratta nè di arcaici intellettuali ‘organici’ (il Pci è allo stato terminale e il mito del Partito Principe è ormai sepolto da tempo), né di ‘specialisti’ aggregati alla politica, né di candidati estemporanei di ‘società civile’. Bensì di un ‘nucleo di progetto’ forgiatosi nella riflessione politica degli ’80, dentro il declino del Pci e dentro i mutamenti della società nazionale. E qui va fatta una precisazione sulla situazione veneziana. Partito e sindacato lagunari, non sono deboli (Venezia è ancora una città con una forte presenza operaia legata alla grande industria, non ha tradizioni ‘bianche’, come gli altri capoluoghi veneti, Padova, Verona, Vicenza ecc.). Tuttavia non sono in grado di esercitare una egemonia. A lungo sono stati esclusi dal governo cittadino, il più delle volte nelle mani della Dc e dei suoi molteplici alleati. Dunque, da un lato, partito ‘non forte’, anche se non ‘debole’. Dall’altro lato una concentrazione, rara nella sua potenza, di ‘materia grigia’ raccolta nell’istituto Gramsci. In tali circostanze il gruppo intellettuale del Gramsci s’insinua in un ‘quasi vuoto’, e prende la guida del processo politico. Non ponendosi in uno sterile antagonismo da ‘società civile’ riverginata con l’anti politica. Bensì esercitando l’egemonia sul mondo della sinistra. Con la proposta politica e il dinamismo della sua potenziale classe dirigente.

Rispetto ad allora molta acqua, come ovvio, è passata sotto ai ‘ponti’. Cacciari sta per chiudere il suo terzo mandato da Sindaco, dopo traversie, spaccature e ricomposizioni. Mentre l’ombra mignon di Brunetta incombe sulla laguna. Rutelli e Bassolino si sa dove son finiti. E dopo di loro Veltroni. La stagione di Orlando è durata poco. Solo Chiamparino è riuscito a far fruttificare al meglio l’eredità di Castellani. Ma anch’egli si avvia all’addio. Sansa a Genova ballò una sola estate, e se il subentrante Pericu ha saputo garantire un decennio di alto consenso, il mandato Vincenzi ha preso il via in modo tribolato. Molti altri sindaci, per quanto ambissero a seguire le orme dei Sindaci-pionieri, hanno lasciato eredità contorte e talvolta fallimentari. Vitali e poi Cofferati a Bologna. Dominici a Firenze. E se è vero che qua e là si propongono eccezioni, come Zanonato a Padova e la recente conquista di Vicenza, nonché la riconferma dell’eccezione trentina, medie città come Brescia sono tornate alla destra dopo gli illuminati mandati di Martinazzoli e Corsini. A Bologna la disgrazia Delbono è piombata sulla città come una bomba enne, richiamando in vita i fantasmi del ’99. Insomma la stagione della ‘politica delle città’ è passata. Il quadro politico, anche aggravato dal restringersi dei margini di autonomia per la crisi economica, è compromesso in più punti.

Eppure, dopo la quasi falsa ripartrenza di molte primarie locali, ritrovare un nuovo slancio nelle ‘periferie’, specie quelle urbane’, è una condizione assolutamente necessaria per il progetto nazionale del Pd (e la sinistra in genere). Ora, in questo quadro, io credo che l’esperienza del Ponte abbia un senso la cui sostanza è ancora attuale. La formulerei così: ripartire tramite robuste aggregazioni intellettuali nelle città, trasferendo su di esse funzioni non solo di analisi/progetto, ma di leadership.

Guardando a casa nostra, ci sono differenze rispetto al caso veneziano. Il partito era (e per certi aspetti è rimasto) forte. L’istituto Gramsci locale ha più spesso traccheggiato come un organo collaterale, rinunciando a entrare in modo diretto sulla politica. Del resto Bologna è una città dove è rilevante lo spessore ‘accademico’, con tutti i suoi difetti, delle cerchie intellettuali. Il Mulino/Cattaneo, l’altra grande aggregazione di rilievo nazionale, ha già dato. In più presenta una notevole frammentazione interna. Difficile immaginare una funzione di traino. E cionostante il partito si è indebolito, mentre larga parte del mondo economico-associativo ha subito una forte corporativizzazione (tanto da rendere patetica la sua attuale pretesa di surrogare la politica in quanto ‘società civile’). Si è creata una situazione in qualche modo analoga a quella veneziana di allora. Perciò ci sono le condizioni perché possa riproporsi un esperimento di leadership a matrice intellettuale. Il Gramsci si è dotato da qualche tempo di una presidenza dinamica, e se è vero che è arduo vedere in Carlo Galli, oggi, una replica del Cacciari di allora, è anche vero che di lì potrebbe partire, a spron battuto, un lavoro di progetto, coinvolgimento e aggregazione intellettuale sulla scala cittadina dal quale fare sfociare l’atteso cambiamento. Se la politica di partito è in crisi, se il sistema delle categorie langue nel declino del consociativismo, non è in una generica ‘società civile’ che occorre cercare le soluzioni. Bensì in una presa di responsabilità del lavoro intellettuale. Tornare a Lenin, e dal nucleo élitista del suo pensiero. Ripartire dalla testa. Da un’avanguardia illuminata. E poi cercare qualsivoglia soluzione utile allo scopo.

16 febbraio 2010

I ‘cattolici’ e il Pd. Con Uffa finale.

Si sente dire, qua e là, che questa volta, alle regionali, molti voteranno la lista ma non i nomi. Sembra che l’idea sia particolarmente gettonata da una parte dei cd. ‘cattolici’ del Pd. Una proposta inquietante, visto da dove viene. Fosse un ex vetero-comunista a parlare non ci sarebbe di che preoccuparsi. Io, ad esempio, e sino ad età avanzata, non avevo l’abitudine di dare voti di preferenza. Trovavo il costume troppo simil ‘democristiano’. Mentre votare la lista, cioè il partito e basta, era un nobile atto morale. Si vota l’idea, forse la politica. Ciò che è e che sta. Non la persona, comunque, che è transeunte, limitata, per definizione sostituibile. Qui, invece, sembrano in campo intenti diversi. Non un sano/malato rifiuto del ‘personalismo’, bensì delle ‘persone’ albergate nella lista. Una minaccia. Un ricatto morale ventilato. Che prelude, come estrema ratio, a un addio al partito. In effetti c’è un transito in atto verso l’Udc. Nelle politiche del 2008, come noto, diversi voti sono transitati dal Pd-Ulivo all’Udc, a sostituzione di un flusso di analoga rilevanza orientato dall’Udc al Pdl. Chiari segnali di un netto spostamento a destra di parte del voto ‘cattolico’. E’ per inseguire questi voti che Rutelli ha fatto i bagagli, presto seguito da un diffuso corteo di ceto politico. Dunque, dopo il voto, un movimento di classe politica. I ‘cattolici’ tornano al centro. Cioè lasciano la sinistra. Magari per ri-allearsi con essa, ma da posizioni di forza. Imponendo la ‘rendita’ del centro. Con la conseguenza per il Pd di un dilemma: allearsi con questo ‘centro’ (ancora largamente virtuale) impedendone la fagocitazione a destra, oppure combatterlo come un segno di inquinamento ? Che tradotto in voti significa anche: se ne perdono di più facendo buono o cattivo viso al gioco ? Il Pd ha scelto la prima alternativa. Ed è probabile non ne avesse altre. Gli esiti li vedremo dopo le regionali. E tuttavia il tema dei ‘cattolici’ (‘adulti’, come si è definito il più importante, cioè Romano Prodi) ha uno spessore ben più vasto di quanto lascia intravedere il movimento dei transfughi. Il Pd voleva significare un doppio movimento: l’incontro dei ‘cattolici democratici’ con la sinistra, e un nuovo modello di integrazione, nel quale di diverse appartenenze si sarebbero dissolte nella nuova identità. C’è un termine del lessico hegeliano che connota con precisione questo processo: Aufhebung. Letteralmente: “togliere per sollevare”. Nel procedimento dialettico il terzo momento, lo stadio speculativo o positivo-razionale, ovvero la conciliazione con l'universale astratto (Enc.C, § 79). L’output finale doveva essere l’autosuperamento delle identità costituenti in una identità capace di ricomprenderle a un livello più alto. Allora sarebbero nati i ‘democratici’, senza più aggettivi, reclusi, al più, ove persistenti, nella sfera interiore della biografia esistenziale. Cioè ‘secolarizzati’. Tradotta in sostanze l’alchimia democratica era il crogiuolo dove avrebbero dovuto fondersi i nobili metalli delle tradizioni costituenti: lo spirito di disciplina, l’organizzazione, le istanze collettive di emancipazione, i profili morali del socialismo, cioè quanto sedimentato dall’esperienza del comunismo italiano (ed emiliano) e i significati teorici (trascendenti) e pratici del ‘personalismo comunitario’ di matrice cristiana, con la ricchezza dei suoi mondi vitali di ‘privato sociale’. Nella cornice rinnovata del patto costituzionale, con il suo liberalismo socialmente orientato. Un welfare con l’anima, l’organizzazione più l’autonomia comunitaria, la disciplina e la competizione democratica, la regolazione politica più la partecipazione, un mercato ‘sociale’, senza corporazioni ma neppure atomizzato. Un partito di pluralismo politico-programmatico, non una congerie settaria di tribù tardo-ideologiche, ovvero post-ideologico. Questa Aufhebung, hainoi, è ben lontana dal venire. Per ragioni complesse e molteplici sino ad ora hanno imperversato gli ‘effetti perversi’ e i ‘riflessi condizionati’. Una tradizione persistendo come vuoto burocratismo, autoterefernza, gelida composizione di equilibri e poteri, l’altra riproponendosi come smaccato ed anarchico individualismo, piccolo notabilato e adunanza corporativa. Accade così di sentire parlare del mancato rispetto, nelle liste, di ‘sensibilità’ plurali. Come che la composizione di una lista e il suo dosaggio arlecchinesco (in verità una ‘lisca’ di pesce, persino decomposto) potesse surrogare l’Aufhebung che non c’è. Si dice Ds e vien fuori ciò che resta delle solidarietà di un apparato un tempo potente e rispettato. Si dice ‘cattolici’ e vengono fuori Tizio, Caio e Sempronio. Tutti con il ditino alzato a rivendicare la patente ‘autentica’ del vero cattolico. Già, perché quando ce n’è uno, vattelapesca se rappresenta i ‘cattolici’. Questo del resto era la Margherita: una assemblea permanente e rissosa di notabili e aspiranti tali, perennemente convocata nella redazione di liste. Un piede nel ‘privato sociale’, la memoria nella gioventù parrocchiale, l’altro piede nella politica. Due gambe divaricate. Con i coglioni (purtroppo i nostri) girati.

Alla fine la lista (regionale) resta quella che è. Se è poco attraente, lo sarebbe stata ancor meno ove avesse adito a questa richiesta di ‘pluralizzazione’ dei vari noumeni (e fenomeni) che si aggirano sulla scena. Perciò resto sul piano accademico. Fosse stato per me, ovvero un’ipotesi megalomenica di incarnazione dell’universale astratto, la lista l’avrei compilata così:

1. suddivisione del territorio federale in tre ambiti (tra l’altro, scontata l’elezione del candidato imolese, il più perfetto dei ‘masi chiusi’, tre sono in previsione gli eleggibili): pianura, città, collina-montagna;

2. avvio di procedure di partecipazione territorializzate (primarie, consultazioni, assemblee di iscritti). Ampia libertà nei metodi, ma con l’unico scopo di una sintesi efficace sulla scala territoriale;

3. formazione di una testa di lista composta da tre ‘leader territoriali’, ciascuno per il territorio di pertinenza; rappresentativi per la forza dei legami trattenuti con il territorio e per l’eventuale expertise agibile sulla scala regionale;

4. impegno del partito a sostenere la testa di lista, lasciando libera circolazione al personale di complemento (tratto da correnti, sensibilità, mondi sociali, se esistenti, e quant’altro…);

5. vincolo tassativo ai candidati di sottoscrivere, ove eletti, quota parte significativa dei loro emolumenti al partito.

Modello semplice, come si vede, forse illuministico e dilettantesco, ma con una duplice intenzione:

a. Recuperare in via di fatto la logica uninominale andata tragicamente perduta con il porcellum, ma colposamente subita dal Pd; alla ricerca del ‘valore aggiunto’ territoriale e della responsabilizzazione degli eletti davanti all’universalità di un elettorato non astrattamente sublimato nel partito, ma geograficamente determinato;

b. Dare un segnale di contro-tendenza almeno in direzione del lato più prosaico, ma visibile come mai in epoca di gravi ristrettezze economiche, della cd. ‘casta’. Son rimasto un marxista, cioè fra tante anime nobili, un gretto materialista. Alla fine l’essere sociale determina i comportamenti dell’uomo. Per salire in vetta all’ideale bisogna essere più leggeri.

Per il resto chi se ne vuole andare, vada dove lo porta il culo. La pianta potata, è noto, cresce meglio. E’ vero che la regola piaceva assai al vecchio Dzugasvili. Ma c’è una differenza con quel losco passato. Il georgiano imbracciava di suo le cesoie. Amputava (soprattutto le parti sane). Qui la potatura è una libera scelta. Auto-potatura. Che è già un passo che la provvidenza, con la sua hegeliana razionalità, offre verso l’Auto-superamento. Aufbeschneiden (che non so neanche se in tedesco esiste) in attesa dell’Aufheben. Con Aufatmen finale (letteralmente: trarre un sospiro di sollievo). Auffa !

15 febbraio 2010

Il piccolo 5 Piovoso di Bolokistan

Ci sono situazioni che vanno immortalate all’istante t zero, prima che il tempo, cioè l’incalzare all’infinito delle congiunture, tutto levighi. Ci sono alcuni appunti che vanno fissati. Alla partenza. E all’arrivo.

Il primo è quanto accade nella notte del 4 Febbraio (‘Piovoso’, nel calendario giacobino), intorno alle 23. Un messaggino Sms a firma di Giuseppe Cremonesi arriva agli assessori della giunta Delbono: “Carissimo/a domani mattina 5 Febbraio ore 10,30 è convocata una giunta straordinaria. Odg. Comunicazioni del Sindaco. Grazie, scusa l’ora. Buona notte”. Una ribollire di voci che si sono accavallate durante la giornata lasciano presagire con una certa chiarezza cosa possa sortire dallo scolapasta: il ritiro delle dimissioni del Sindaco. Dimissioni misteriosamente date, subito appresso a ripetute dichiarazioni di strenua resistenza (anche con un ‘rinvio a giudizio’) e che adesso s’intederebbero ritirare. Chi sospinge l’ipotesi – una ipotesi in sé non del tutto peregrina – non sono tuttavia le forze politiche della coalizione. Le quali, al caso, avrebbero anche potuto avvalersi della carta come un Jolly estremo da lanciare sul tavolo. E che in tal modo gli viene invece sottratto. Bensì una cordata di interessi economici e societari, nonché ‘morali’, dalla via che è evidente un qualche coinvolgimento della stessa Curia, con in testa il Collegio Costruttori. Il movente appare non del tutto prosaico: evitare alla città la paralisi, che va esattamente profilandosi proprio in quelle ore, di un lungo commissariamento. Però le ‘dita sulla città’, si vedono, eccome, dietro la ‘matta’. Una iniziativa dunque extra-politica, che passa sulla testa dei soggetti politici, e di cui è facile immaginare l’esito: un Sindaco ‘pret à porter’. Con i partiti a rimorchio e con un pesante ‘cappello in testa’: il concerto di una parte almeno degli interessi locali che ‘contano’. E’ una sorta di piccolo ‘colpo di municipio’. Viene tenuto in vita un ordinamento civico del tutto svuotato e privo di legittimazione nel mentre si ridefiniscono in via di fatto contenuti e soggetti attuatori. ‘Buona notte’, infatti. La città entra davvero nel buio. Da un lato l’iniziativa della destra che tende a stremarla/umiliarla. Dall’altro un insieme di interessi societari che mira a insinuarsi nel vuoto politico. Prendendo la mano nottetempo. Sostituendosi a un Pd paralizzato dagli eventi e sotto choc. Come è finita si sa: l’iniziativa di Delbono & company è presto rintuzzata dalla minaccia di un suo diretto ri-dimissionamento da parte del gruppo consiliare. E tuttavia il fatto, questo piccolo 5 piovoso, resta notevole. Foriero di sviluppi. Ancora adesso, in questo strenuo agitarsi della stimata Camera di Commercio, il concerto supremo delle ‘categorie’, e in questa nella pelosa malleveria di Casini presso il governo (e finanche Berlusconi in persona), non è difficile intravedere un filo rosso dove molte cose si legano. E qui bisogna guardare un attimo indietro.

Il Bolokistan non è nato oggi. E’ un pezzo di società materiale che è vissuto all’ombra dei partiti e che si è poi progressivamente autonomizzato. Associazioni rappresentative di ceti medi, commercianti, artigiani, libere professioni, di imprese, cooperative, fondazioni bancarie, ecc. Tutto un milieu. Società civile ‘concreta’, in grado di dettare tempi e modalità della governance. Con una intrinseca attitudine alla redistribuzione e con un interesse tutto ‘barocco’ alla preservazione dello status quo e degli interessi di ceto. Nella lontana crisi del Pds, nel ’99, questo concerto aveva subito compreso la portata del ‘progetto’ civico guazzalochiano. Un uomo, non per caso, delle ‘corporazioni’, uscito dal suo stesso seno, il cui scopo era esattamente quello di ‘scollare’ il sistema degli interessi dall’ingombrante primato della sinistra. Il pragmatismo in luogo dell’ideologia, il minimalismo faber in luogo dei sogni. La colla degli interessi come vero mastice della coesione sociale. Sistema appiccicoso, gelatinoso, si direbbe. Cui subordinare tutto il resto della città. Ridotto a puro orpello: la partecipazione popolare, la politica, i partiti. Questo concerto aveva patito la poco gloriosa dipartita di Guazzaloca nel Pratile del 2004. Aveva storto il naso, e la bocca, di fronte a Cofferati. L’ingombrante giacobino venuto da fuori. Il quale Cofferati gli aveva reso la pariglia, mettendone gli interpreti in un angolo e infliggendo loro ogni sorta di fustigazione. Senza tuttavia riuscire, per ragioni che un giorno, forse, dovrebbe lui stesso spiegarci, a costruire una egemonia alternativa alla degenerazione del ‘modello consociativo’. Tanto è vero che Egli non riesce a impedire il crearsi di una commistione tonale fra ‘interessi forti’ e società ‘debole’ che nutre aspettative di partecipazione. Non passa giorno che uno dei membri di questi due mondi, a turno, non tuoni sulle pagine della stampa cittadina (e di Repubblica in particolare, il cui Direttore adesso predica così bene, che presto ne diviene il megafono quasi esclusivo). La coesione sociale vilipesa, il progetto di città andato al mare, la condivisione violata, come la coalizione politica, i bravi consiglieri inascoltati, gli interessi sdegnati, come le aspettative dell’ultimo dei comitati, e finanche i buoni sentimenti. In effetti qui sta la colpa di Cofferati: non nell’aver colpito il bersaglio giusto, ma di non essere stato in grado di costruire un’alternativa.

E’ in questo quadro che va collocata l’operazione della candidatura Delbono. Adesso Bonacini chiede scusa. Ed è un atto di coraggio che va sottolineato. Lui del resto è arrivato dopo. Non c’entra. Caronna si prende stoicamente la colpa. E lui, invece, c’entra. Ma, al di là delle posizioni retoriche, è il passaggio post-Cofferati che andrebbe chiarito nei suoi aspetti di sostanza. Il mandato politico sotto la cui insegna avanza la candidatura Delbono appare evidente: ricucire laddove Cofferati aveva ‘rotto’. Per alcuni le ‘palle’ dei partiti e le loro abitudini coalizionali; per altri i nervi dei cittadini, bisognosi di ascolto, rassicurazione e simboliche identificanti; per altri, ancora, le legature degli ‘interessi’, la loro voce sulle scelte che contano, e assieme, i loro equilibri e le vicendevoli convenienze. Su questo programma in molti si ritrovano. Quasi tutti. Per i decisori politici la scelta era in certa misura obbligata. A parte la reticenza soggettiva, troppo rischioso azzardare di riuscire dove Cofferati aveva fallito. Nei panni di Caronna, Errani ed altri, pochi avrebbero scelto un’altra strada. Cioè l’accordo con la componente prodiana: la parte più esposta verso il centro, da dove veniva la minaccia. Perciò suscettiva di ‘scivolamento’. Come del resto era accaduto nel ’99. Il problema è però capire quali erano le proporzioni e le misure di questo accordo, i limiti da non superare. Cioè il perimetro politico e di progetto della governance. Ciò che gli eventi del piccolo 5 Piovoso sembrano mettere in risalto è che questi limiti, se c’erano, erano stati superati, e con larga autonomia. Forse ben al di là della disponibilità dei contraenti del patto. Troppo smaccata la gratificazione restituita da un certo inviluppo di interessi, per non pensare che la massa gelatinosa andava condensandosi attorno a un ‘centro’ stringente come mai. Che questo ‘centro ‘, o ‘milieu’, avesse trovato, in altre parole, il Suo Sindaco.

Chiuso qui, per adesso, il discorso. Anticipo alcuni temi delle successive riflessioni. Fra questi la ‘questione’ dei cattolici del Pd. Dove non mi è difficile trovare più di un legame con il quadro descritto. Che è anche la questione del rapporto da tenere con questo ‘centro’. La mia impressione è che con il fallimento dell’operazione Delbono, la sua autonomia locale di manovra risulta enormemente accresciuta. E tenderà a occupare i gangli della vita politica cittadina….

11 febbraio 2010


I master forum ci riprovano.
Per la sera di:

Venerdì 12 Febbraio ore 20,30
 Sala Passepartout Via Galliera 25

Titolo della serata:
Politica e società:
due universi paralleli, un’unica crisi


Con due brevi introduzioni tematiche (sotto i venti minuti) di:
Fausto Anderlini:
Il caso Bologna e il Pd. Cercare la profondità sulla superficie
Cesare Minghini:
La crisi economica e i problemi della rappresentanza sociale

Ricordate la riunione semiclandestina convocata nei sotterranei della Casa del Popolo “Spartaco” ?
Era il 13 Maggio 2009. Dopo le ripetute sconfitte elettorali e le dimissioni di Veltroni il Pd s’era desolatamente arenato. Svolte le primarie di Bologna, ci si avviava alle elezioni amministrative senza ardore ed un basso profilo. Fu una bella discussione, che si concluse con una proposta:

“Fare un forum per uscire dal cul de sac”

Dopo di allora non ci sono stati più incontri. L’amministrazione cittadina sembrava procedere secondo il suo corso. Il Pd è andato alle primarie che hanno incoronato Bersani. I master-forum sono stati presi dalle loro faccende. Cesare Minghini si è concentrato nell’editazione di una bella rivista sindacale (ERE), Anderlini è malinconicamente veleggiato a Terlingua (deserto del Texas).
Fare un forum, infatti, costa fatica. Ecco adesso è uno di quei momenti dove questa fatica bisogna farla, anche se non se ne ha voglia. Perciò, dopo quanto è successo a Bologna, ricominciamo...

10 febbraio 2010

HYBRIS

Come spiegare il voltafaccia del Pdl e dei suoi tirapiedi ? Darsi da fare per la città, portandola al voto il più presto possibile, sembrava un'occasione egemonica servita su un piatto d'argento. Porre rimedio dove altri avevano fallito. E invece no. Commissario sino al 2011. La città di Bologna, una delle più dinamiche aree metropolitane del sistema Italia, la capitale di una regione fra le prime in Europa, trattata come Canicattì Bagni o un comune della Locride. In realtà per analizzare le mosse della destra non si può ricorrere alla razionalità ordinaria, ovvero alla logica spassionata ed oggettiva. I comportamenti politici sono sempre una mescolanza di elementi razionali e libidici. Non c'è da stupirsi che sia stato Cicchitto a dettare il refrain, cui si sono tosto accodati i tirapiedi locali, da Berselli a Cazzola, rimangiandosi quanto avevano dichiarato solo poche ore prima. Un Craxiano della P2, pregno di odio e rancore, come molti suoi sodali. Un uomo mosso non da ideali politici, quanto dallo spirito della vendetta. Desideroso di infliggere ad altri la gogna cui fu fatto segno il suo padrone (Craxi). Di togliersi la spina e conficcarla nelle carni altrui, godendo del dolore provocato. E' il caso di ciò che la tragedia greca indicava come l'Hybris: tracotanza, eccesso, prevaricazione. Sotto questo profilo il commissariamento di Bologna (e non per caso è la P2 che ritorna...) è una sorta di 'bomba enne' lanciata sulla città, per distruggerne il tessuto civile (oggetto dell'odio e dell'invidia). Esatto equivalente di quella bomba che il 2 Agosto dell'80 fu lanciata sulla stazione. Sfregiare la città tutta intera. Un delitto contro la comunità. Il movente è lo stesso di allora: l'odio. La tattica della destra muove da questa hybris, da questa percezione esistenziale del 'nemico' da eliminare/umiliare. Bologna la rossa. Lo Studio, la sua florida manifattura, i servizi sociali. Irriderla, canzonarla, sgualcirla. Desertificarne la tempra civile. E poi, una volta abbattute le sue difese, espugnarla, mettendola a sacco. Di fronte a tutto questo è necessaria una insorgenza civile. Odio chiama odio. Umiliazione chiama orgoglio. No pasaran.

5 febbraio 2010

Piccoli annali

In un recente post Zani (l'amico ritrovato) ha ricordato a un lettore che lo invitava a scendere in campo quale è stato il momento in cui ha sentito vibrare l'orgoglio di proporsi come candidato Sindaco: il 2004, l'anno di Cofferati. Leggendo queste frasi mi è sovvenuto di un sondaggio che svolsi riservatamente per l'allora segretario dei Ds (Salvatore Caronna). Sondaggio dell'Ottobre 2002, poco più in là del mezzo mandato di Guazzaloca. All'epoca non ero ancora caduto in disgrazia e spesso mi venivano richieste prestazioni demoscopiche. Alle quali rispondevo gratuitamente e coscienziosamente stilando 'ottimi' rapporti. Il tutto per la valutazione di committenti scarsamente dotati nel mettere in relazioni numeri e pensieri (e spesso entrambe le cose). Qui, in Astanteria - sempre ai fini di un dialogo pubblico/privato fra me e Zani appassionante proprio perchè totalmente inutile - vorrei riproporre alcuni stralci di quella rilevazione. In essa erano infatti testati alcuni duelli virtuali fra diverse ipotesi di candidati per il centro-sinistra e Giorgio Guazzaloca. Ricordo, per il lettore, il quadro politico di quell'epoca. A mezzo mandato Guazzaloca mostrava di avere assai poco slancio. Per quanto godesse di un certo consenso, la luna di miele 'civica' era impallidita assai. Nello stesso tempo anche il centro-sinistra arrancava, reduce dalla sconfitta del 2001. Nell'opinione pubblica di sinistra, inoltre, già impazzava la domanda di Briscolone. Che all'epoca coincideva con Bersani (mentre sarebbe poi inaspettatamente arrivato Cofferati). Come il lettore potrà dedurre dai dati ricoverati in Astanteria Zani non era mal piazzato, ma Prodi (Vittorio, anche per via del fatto che la gente pensava a Romano) e Riccomini (sorprendentemente) avevano qualche chance in più. In sintesi, come scrissi nelle conclusioni, Zani non aveva alle spalle una corrente di opinione così forte da surclassare ogni rischio. Candidato con un profilo prettamente partitico, la sua candidatura poteva essere sostenuta solo con un robusto apporto del partito/coalizione. Che in quel momento non c'era, anche perchè l'esperienza regionale di Zani era tramontata nell'insuccesso in coincidenza del congresso di Pesaro. Uomo di partito, ma assolutamente isolato. Forse avrebbe potuto rientrare nel gioco come un out-sider via primarie. Comunque è fantastoria. Allora le primarie, ci fossero state, sarebbero state trainate dal partito. Ben di più di quanto sarebbe accaduto in seguito. Un Bartolini bis, con Cevenini a contorno. Nel caso - qui si - sono convinto che Zani si sarebbe inorgoglito al punto da lasciar perdere (come del resto già aveva fatto nel '99). Come andarono a finire le cose è storia nota. Cofferati issato a palazzo d'Accursio con furore, non tanto da un'onda elettorale (le defezioni ci furono, per un 5 %), bensì ideologico-carismatica. Zani in Europa (fossi malizioso, potrei dire che anche lì Zani avrebbe potuto fare un peccato d'orgoglio, anche utile, malgrado il rischio, per investimenti futuri; ma non lo fece). Comunque sia Zani resta per me il migliore candidato sindaco del '99, e visto come sono andate le cose, anche del 2004. Siamo gente con un grande futuro alle spalle. O un grande passato davanti. Triste fardello dell'età. Non so quale scompiglio/divertissement potrebbe generare un ritorno al Pd di Zani. Se la federazione Pd fosse eguale a quella tardo Ds, sarebbe sicuramente intrigante. Ma il Pd, malgrado abbia incorporato/cumulato molti dei vecchi vizi dei fondatori, è davvero altra cosa. E' un organismo spugnoso, così ricco di micro-soggettività superficiali, da fregarsene del tutto di quelle dotate di un qualche spessore. Anch'io sono stato mandato a ramengo da un pezzo. E non è che avessi grandi ambizioni. Del resto manca perfino l'affinità linguistica. In ogni caso, siccome sono di corte vedute, penso anch'io che ci sarebbe bisogno di una sinistra. Certo intelligente. Non nel 'paese', però, bensì nel Pd (che resta l'unico mezzo, per quanto malandato, per agganciare quel che resta del paese). Se liberato dei demoni mnemonici (e mi rendo conto quanto sia difficile, quando è una delle poche cose che ti restano) Zani potrebbe dare sicuramente - come si diceva una volta - un 'contributo positivo'. So già, tuttavia, che qui farà peccato d'orgoglio. Con me è facile....

2 febbraio 2010

Cambio di gioco

Uscendo per un attimo dalle mistiche atmosfere di Terlingua mi vien da pensare (guarda un po') al 'candidato'. I problemi - è vero - stanno altrove. Nel progetto, nell'identità, nelle alleanze, sociali e politiche ecc. ecc. Cionondimeno bisogna mettere in campo un candidato. Tale che il suo passaggio, anche l'eventuale sconfitta, serva comunque a questo 'altrove'. Andando avanti. Con un cambio di fase. Trunc ! Nel post precedente ho scritto che un partito 'serio' farebbe delle scelte, trattenendosi dal nascondersi dietro delle metodologie. Se questo requisito manca, nulla vieta di elaborare ipotesi di scuola, come se tale partito ci fosse davvero. Guardando a ciò che si vede per adesso, è difficile sottrarsi all'impresione di una situazione comicamente desolante. Si facessero le primarie con ciò che passa il convento sarebbe uno show down dalle tinte grottesche. Il popolo della camera del lavoro dovrebbe trovarsi schierato a favore di Campagnoli (segretario della CGIL tre lustri orsono...mi sfugge la ragione per la quale dirigenti di norma così ritrosi a entrare nel 'dibattito' politico, abbiano deciso di metterci i piedi tutto d'un colpo....). Quello della cooperazione dovrebbe assieparsi dietro al suo Massarenti (il Sita, da poco uscito per sopraggiunta quiescenza dal gota dei grandi capi). Gli artigiani dietro a Sangalli. Quello dei bar (Ciccio) e della curva Andrea Costa porterebbe in spalla il suo Cev. Possiamo immaginare molti altri contendenti, ma è facile capire chi sarebbe il vincitore di così elevata tenzone. La precipitazione al punto zelig.

Woody Allen nei panni del colonello Sanders, su cui si basa il personaggio di Zelig, che possedeva una misteriosa abilità per essere presenti a tutti gli eventi storicamente significativi: l'invasione della Normandia, la firma della Magna Charta, il D-Day, e, sopra, la firma del trattato di Versailles alla fine della prima guerra mondiale.

Risultato: un Pd 'Druso', letteralmente liquefatto nel suo elettorato. Completamente libanizzato lungo le filieres degli interessi e delle sottocordate. Un partito letteralmente disciolto nel 'partito unico delle primarie'. Come tale perfettamente anarchico e darwiniano. Uomini rispettabili, beninteso, quelli citati, che sarei anche disposto a votare/sostenere ove la spuntassero (a parte Sangalli, quello proprio no...). Ma certo 'sostituibili', bandiere un poco stinte e ordinarie di truppe più o meno volatili. Certo sperimentati. Nel senso che ciò che potevano dare di 'straordinario' l'hanno dato. Nel bene come nel male. Dentro una storia talmente conosciuta da diventare domestica. Su altra sponda, non è che desti entusiasmo il corteo avviato da Repubblica dalle parti di Via Gerusalemme. Oddio, se il Briscolone accettasse l'invito all'atto d'amore (ma cosa siamo, al melodramma ?), tutti in riga. Successo garantito. La mia impressione però è che questo corteo, con i suoi lagnosi maitres a penser (Balzanelli e de Plato), sia mesto assai (e che peraltro non stia facendo gran servizio a Prodi). Piagnucolare dietro a Prodi, evocato come un pater familiae, neanche fosse Guazzaloca, estremo supporto a quell'accomodamento di poteri e convenienze del quale Delbono era stato interprete malaugurato, peraltro, significa già dichiarare che si è alla frutta, con il risultato di riempire d'ardore i nemici. Nè molto intelligente è stato guardare tremebondi all'Udc, ispessendo l'ago della bilancia, con il gallettino per stemma, ben oltre la sua misura.




Siamo nel regno delle cose più trite, del deja vu. Sparigliare, bisognerebbe. Cambiare schema. Niente primarie, e comunque nessuna ridicola resa dei conti fra i soliti noti. Tutti un passo indietro. E avanti una persona giovane, iscritta o di area. Giovane di spirito, per capacità energetiche, neanche tanto per l'anagrafe. Di qualità intellettuale riconosciuta e che già abbia dato qualche prova, anche solo potenziale, di combattente. Con idee innovative, specie in materia ambientale. Comunque decisamente estraneo alle baruffe che conosciamo così bene. Ecco quel Segré, in via 'astrattamente empirica', tanto per citare un fac-simile, non sarebbe una ipotesi da scartare. E si potrebbe anche soprassedere sul fatto che un tipo come Di Pietro (e il suo corteo sotto le mura ancora più mesto degli altri) ci abbia messo il cappello sopra.

INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

Come raggiungerci: consulta la mappa

Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)