18 dicembre 2009

Ostensione e martirizzazione. Criminalizzazione vs. pacificazione


Quale sarà la piega degli eventi si vedrà. Per adesso è ovvio che la destra userà fin dove possibile l’occasione per spianare la strada allo sbrago costituzionale. Su questo spartito – ovvero l’occasione offerta su un piatto d’argento di instillare nella politica italiana qualche dose suppletiva di ‘stato d’eccezione’ - la vittimizzazione acrimoniosa, alternata alle minacce e alla sicumera, con annessa criminalizzazione, è un dispositivo largamente collaudato.


Da un punto di vista strettamente oggettivo, malgrado il gran parlare attorno a una imminente ‘guerra civile’ e al clima psicologico e semantico che starebbe preparandola, nella dinamica dell’evento non c’è alcuna connessione più che casuale. Casuale è la ragione che porta Tartaglia a vagabondare fra quella folla dove si accalcano un nutrito gruppo di seguaci del ‘capo’ e un manipolo di contestatori vocianti e saltellanti come in tantissime altre occasioni. Il Tartaglia è descritto come uno psicolabile sostanzialmente innocuo e pacifico. Risulta presente sulla scena senza alcuna premeditazione razionale, se non una voce interiore che lo sprona a ‘fare qualcosa’. Si aggira per diverso tempo fra gli astanti, fino a quando si trova miracolosamente a tiro la faccia di Berlusconi. Il suo braccio, come si vede nelle immagini, prima di abbattersi sul predestinato brancola per diverso tempo per aria senza che i pretoriani privati del Premier se ne accorgano (comprova di conclamata inefficienza). L’arma del delitto è, in sé, un innocuo souvenir (gli americani, sempre morbosamente interessati a ogni tipo di arma od oggetto balistico, lo hanno descritto con comico dettagliamento…). Un oggetto banale, il primo che si propone casualmente alla portata. Perfettamente isomorfo all’animo di Tartaglia: un ‘semplice’ a tutti gli effetti. Si deve forse a questa convergenza – una ‘cosa’ nelle mani di un ‘semplice’ che il destino porta semplicemente in quel luogo - in una di quelle improvvise sospensioni di tempo che governano l’imprevedibile e catastrofica ‘sincronicità’ del ‘caso’, se l’oggetto contundente viene precipitato sul viso di Berlusconi come carico di una inquietante forza metafisica. Quasi che la mano del Tartaglia fosse stata armata da una misteriosa energia profetica: divina, o più probabilmente demoniaca. L’oggetto – il Duomo di Milano con annessa Madunina – è ‘scagliato’, e dall’alto, non ‘tirato via’ secondo una normale parabola come fu nel caso del trepiede lanciato a suo tempo dall’edile mantovano con goliardica leggerezza. La mente di Tartaglia è vuota e inconsapevole, come baci e autografi che profluviano intorno all’uomo del destino alla ricerca di taumaturgici riconoscimenti. E’ il braccio che vorrebbe rendere chissà quale giustizia. O il battito d’ali che all’altro lato del pianeta fa da viatico a una catastrofica precipitazione. Per quanto censurata e condannata, la violenza è sempre levatrice di qualcosa. Infatti…. Berlusconi rimane stordito, ma subito, in via del tutto automatica (segno di una premeditazione a lungo coltivata), il corpo prende a muoversi secondo un canovaccio ben preordinato. Anziché ritirare il volto dietro le mani, anziché inibire al sangue di spandersi, anziché piegarsi cercando riparo e soccorso, anziché darsi una ragione di ciò che accade…egli cerca di elevarsi, smaniando, sulle spalle di chi gli sta attorno. Sembra quasi arrampicarsi, mentre cerca (e trova, per un attimo) il noto ‘predellino’. Il movente immediato è quello dell’ostensione, tanto che la scena sembra ricordare, nella sua concitata improvvisazione, l’ostensione a Kabul, davanti ai Talebani muniti di motociclette, del manto insanguinato di Alì ad opera del Mullah Omar. Gli occhi di Berlusconi sono spiritati e sgomenti. Egli è letteralmente stupefatto e impaurito dalla forza lapidaria che si è abbattuta sul suo corpo (ed è noto quanto questo body sia importante nella sublimazione mediatica). Cionondimeno – carpe diem, in questo egli è veramente maestro impareggiabile - trova subito modo di cogliere l’occasione di una ‘rappresentazione’ del tutto straordinaria. Il martirio – evocato in innumerevoli episodi come il risultato di potenze anonime e macchinose (la magistratura, la stampa, i comunisti ecc. ecc.) - appare infine fisicamente visibile. Più che cromatico. Letteralmente ematico. Alla pretesa di Giustizia del braccio di Tartaglia, la pretesa del Giusto quale si vede nelle stimmate fresche di sangue stampate sul volto di Berlusconi.

Non credo che da queste due pretese ‘giustizie’ verrà alcun seguito pratico: almeno come replicazione o smodata periclitazione del paese nella guerra civile. La trama della politica è disegnata da tempo e seguirà il suo corso. Più o meno rapido, determinato o incerto, secondo gli sviluppi che dal ‘fatto’ origineranno. L’azione in sé non avrà– considerata la sua casuale unicità- alcuna replica. Si tratta di vedere piuttosto, in questo ambito, quale sarà la piega della ‘reazione’. Certo ci sarà la criminalizzazione. La destra è esperta come pochi nel profittare delle sciagure. Nel trarre plusvalore dalla confusione. Tuttavia si tratta di vedere se l’ostensione, così repentinamente colta, perseguirà tutti significati voluti. Cioè come il sangue e quegli occhi spiritati di un uomo che si arrampica sulla calca, reagiranno nel medio periodo sul corpo mediatico del premier. L’unico corpo cui i seguaci sono stati sino ad ora abituati. Il Berlusconi che esce dall’ospedale è più che umano: un uomo ultrassettantenne tumefatto. Che ha subito una violenza ad opera di un altro uomo. Ben lungi dal ‘forever young’ celebrato da Scapagnini. Una esperienza i cui esiti psicologici sono tutt’altro che prevedibili. Questi accadimenti – un incidente, una malattia, un grave rovescio, un trauma corposo – sono sempre forieri di alterazioni e mutamenti. Tanto più in una personalità prettamente ‘intuitiva’ quale quella di Berlusconi. Dal colpo subito egli potrebbe uscire rafforzando un ego smisurato e la sua natura impulsivamente aggressiva. Oppure potrebbe prendere distanza dal suo sé, piegandosi in ireniche riflessioni. I due partiti che si sono immantinenti formati nello spazio politico - falchi e colombe (su entrambi i lati dello schieramento) – restituiscono plasticamente tali, opposti, sviluppi.

Qui, davanti a questa quadripartizione dello spazio politico, sdoppiato su entrambi i lati fra falchi e colombe - c’è l’occasione per segnalare, pure di sfuggita, la complessità delle scelte che vanno aprendosi davanti al Pd. Il bipolarismo italiano non è mai stato metabolizzato istituzionalmente. Esso è sempre restato incardinato all’eccezionalità della presenza di Berlusconi: unico punto fisso di una scena nella quale gli attori (tanto più con l’uscita di Prodi dal cartellone) si sono alternati vorticosamente. Il Pd di Veltroni ha fallito l’assalto al ‘centro’ e questo, da numerosi indizi, va riformandosi su altre lunghezze d’onda. Per questo centro in via di formazione (nel quale converge di fatto anche la fronda delle colombe interne al Pdl) è cruciale l’uscita di scena, comunque la neutralizzazione, di Berlusconi e dei falchi da lui ampiamente foraggiati. Si tratta di vedere se il Pd di Bersani sarà in grado di muoversi rispetto a questo spazio con una politica propria, evitando l’isolamento, ma anche di trasformarsi nella salmeria di disegni agiti da altri.

4 dicembre 2009

Fausto in the Cajun's Land



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Fausto, dall'Acadia, in disaccordo sul No-B Day


Per una volta, nascosto fra le paludi dell'Acadia, quindi molto, ma molto lontano, mi sentirei di non essere d'accordo con la mia rispettabile socia. Vista da qui il no berlusconi day mi sembra un'adunata dei soliti snob, nel frattempo divenuti anche un poco moralisti. Convocata con nessun altro scopo che dettare l'agenda alla neo-dirigenza Pd nel delicato momento della sua transizione. Fossero anche un milione questa adunata non spostera' di una virgola i rapporti di forza fra i due schieramenti, se non all'interno del centro-sinistra. Che Franceschini e Veltroni ci vadano, prendendo la palla al balzo per marcare la differenza, rientra nelle cose. Tecniche super ritrite e stucchevolmente note per chi la ginnastica l'ha fatta nell'eta' infantile del '68 in mezzo a ogni genere di gruppettaristi e moschine cocchiere. Peraltro andare in piazza con Di Pietro e tutta la compagnia degli showmen mi genera problemi di stomaco. Soprattutto se significa mettersi alla coda di tale corteo. Il Pd sdoppiato ancora una volta fra il partito della piazza (dell'esterno) e quello della cautela (dell'interno)... Vien voglia davvero che questo soggiorno in Acadia, fra anziani cacciatori pescatori cajou, semplici, armati di fuoristrada arrugginiti e accampati nei mobilhome, quanto orientati all'Old Party, potesse prolungarsi a tempo indeterminato....

INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

Come raggiungerci: consulta la mappa

Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)