13 agosto 2009

La Repubblica di carnevale, ovvero dove ogni scherzo vale


Nell'editoriale di oggi di Repubblica Bologna (giovedì 13)la scrivente (non ricordo bene se Cappelli o Bignami, il giornale l'ho dimenticato al bar...) prende in mezzo il povero Melucci e leva il dito contro il Pd, giudicato reo di un pesante ritorno di stalinismo. Pietra dello scandalo: le sospensioni comminate agli iscritti presentatisi con altre liste (come quella Pasquino)alle elezioni comunali. Lo schema di lettura della commentatrice è uno stupefacente sillogismo. Come può espellere i suoi membri un partito che, come si proclama, non è ideologico nè identitario ? E' noto, infatti, che solo entità ideologiche e religiose, perciò sommamente lesive dei diritti individuali, mettono alla porta gli aderenti sleali. Questo non avviene in nessun altra organizzazione, neppure in quelle più laicamente innocue. Se il socio di una bocciofila rovina il campo di gioco e si mette a lanciare le palle in testa a un altro socio, ad esempio, sarà prontamente premiato dal Presidente. Se in un ristorante uno sputacchia sul tavolo vicino prontamente il maitre non solo non lo metterà alla porta ma lo gratificherà di uno sconto. Nelle squadre di calcio, poi, tesserarsi ad altra squadra è il modo migliore per diventare titolare in quella con cui si è a contratto. Ecc. Ecc. Ecc. Ma ci sono altri esempi che calzano a pennello. Se un giornalista contesta Direttore e linea editoriale sarà tosto elevato di grado, tanto più se avrà il buzzo di scrivere per testate concorrenti. Così, infatti, sembra che funzioni a Repubblica, giornale, esattamente come il Pd, nè ideologico nè identitario. Ragionamenti che non fanno una grinza. Specularmente perfetti anche per biasimare l'altro costume in auge nel Pd: quello di non dare la tessera e di impedire di concorrere alla segreteria a gente (come Grillo, ma prima di lui anche Di Pietro e Pannella) alacremente impegnata a gettare valanghe di merda sul Pd medesimo, mettendone alla prova il carattere nè ideologico nè identitario. Se ne dovrebbe dedurre che un partito, essendo, ripeto, nè ideologico nè identitario, non dovrebbe avere nè confini nè vincoli di lealtà. E così le polisportive, i ristoranti, le squadre di calcio, i giornali.... Difficile contestare uno schema di pensiero così rigoroso. L'unico appunto che mi sento di proporre lo traggo dal calendario. Siamo a Ferragosto, e non fa neppure tanto caldo. Non a Febbraio. Solo a Carnevale, mi risulta, 'ogni scherzo vale'. C'era una volta il 'partito che vorrei': adesso scopriamo che non basta neppure 'liquido'. Lo si vorrebbe Carnevalizio. Dove ogni aderente si mette una maschera e poi l'altra e tutti ridono contenti.... In realtà un problema serio da discutere ci sarebbe. Che quel tanto di regole che ci sono vadano rispettate non c'è discussione. La discussione sarebbe invece assai utile per le diverse situazioni di contesto. Per quanto ne so' almeno due casi, quello di Zola e di Marzabotto, sarebbero meritevoli di approfondimento politico prima che procedurale.

10 agosto 2009

Oscar Marchisio


Muore Oscar Marchisio, rapito alla vita a 59 anni, nella sua dimora di San Remo. Trapasso istantaneo. Furto con destrezza. Il ligure l'ho conosciuto all'inizio dei '90, a Bologna. Prima segreteria provinciale del Pds. Segretario La Forgia. Uomo dalle molteplici sfaccettature e dai più svariati interessi. Analisi acute, eloquio brillante. Mai banale. Un 'consulente aziendale' il cui curriculum pesca nelle acque turbinose e creative della generazione del '68. Perciò di formazione per nulla bocconiana, bensì filosofica. Con il marxismo come pietra miliare. Quindi, necessariamente, interprete naturale della post-modernità e del post-fordismo. Infatti le sole indagini interessanti della società contemporanea sono venute da chi veniva da una lettura antagonista della società industriale. Oscar Marchisio lo colloco a fianco di un altro amico scomparso: Mario Zanzani. Identico profilo umano e anagrafico. Capitale umano di grana fine, accumulato nel tempo. Al centro la lettura interdisciplinare delle trasformazioni sociali/territoriali. Ai margini, l'ibridazione dei linguaggi. La musica colta e il Jazz per Mario, la letteratura cyber-punch per Oscar. Entrambi analisti 'operativi', ma di formazione intellettuale. Nel vero senso della parola. Dove questa natura si rivela non nei titoli formali, bensì nel mix dilettantistico-artigianale (proto/post capitalistico) di vita e ricerca, esistenza e riflessione. Imprenditori di sè stessi, tutti e due operano ai confini delle grandi organizzazioni, nell'orlo dove si tessono le transazioni con l'ambiente esterno. Sono uomini-impresa, nella cui attività si mescolano organizzazione/ricerca/expertise. Oscar pendola fra la Cina e la Camera del lavoro di Bologna. Il vortice della vita, ovvero il caso, li porta a Bologna. Solo qualche attimo fa c'erano. Adesso non più. Cosa rimane di questo 'capitale' umano quando arriva il trunk ? Cosa ne sarà dei loro testi, dei loro rapporti, delle loro librerie ? E dei loro blog, soprattutto, che ne sarà ? Questa scrittura coltivata nella solitudine. Nello studio, o in qualche sala d'aspetto, in una camera d'albergo. Postando con altri naufraghi. Perchè a questo penso: il ciber-spazio come una popolazione di naufraghi. Individui-corpuscoli appartenenti a una massa galattica alla deriva. Ultimo post prima del trunk: 24 Luglio, dopo la strage di Viareggio. Saggio sulla cecità dei sistemi tecnologici. Poi il buio. A destra, nella home page, biografia, curriculum vitae, archivio. Varie sotto-sezioni: Mediterraneo, No-Tav, Pianeta Cina, slowmed vs turbochina. Anche "in ricordo": cioè necrologi. Tre persone, per due due delle quali il trunk è datato ad Agosto. Pensateci bene: questo è Agosto. Un bagliore di luce catastrofico. Nella memoria non restano le vacanze, bensì la morte remota e inattesa. In plen air, o in una stanza. E il ciber spazio è ricolmo di doppi fondi: siti commemorativi, blog moribondi e abbandonati come gli animali domestici ad Agosto (ancora lui), blog di defunti, pietrificati al trunk. Perciò eternizzati nel grande cimitero internautico, dove li puoi incontrare solo per caso, a meno di non essere esploratori net-crofili. Cari amici scomparsi, piango la vostra dipartita e tutto quello che ancora si poteva dire/fare/baciare/bloggare. Con voi mi identifico. Lettera senza testamento. Dopo Agosto pioggia e vento per i nati nei '40. Generazione di fenomeni. Animali caldi.

3 agosto 2009

Delitto e memoria


Tutta quest'ansia di cambiare rito non la capisco. Già il fatto che si esprima, di norma, con edificanti pensieri desta sospetto. Più in generale, diciamoci la verità, il 2 agosto è diventato uno di quegli argomenti dove si è molto abbassata la barriera d'accesso, ed è facile assumere la posa del riformatore e/o del censore. Vediamo così direttori di testate locali che si mettono di gran buzzo a suggerire cambiamenti. Sempre nel dovuto rispetto dei familiari (assai meno dei partecipanti assiepati sotto il sole agostano: hic sunt leones). In realtà, col tempo, il rito ha assunto una sua forma/cadenza. Di fatto. C'è la parte formale, e c'è quella reale-sostanziale (e c'è più di una ragione per pensare che i 'familiari' la pensino esattamente come i manifestanti...ha una bella voglia il Guazzaloca a chiedere a Bolognesi di farsi da parte, come è capitato a lui stesso nelle recenti elezioni; sino a chè Bolognesi raccoglie mandato e fiducia dai familiari non ha senso parlarne...). Dopo la maestosa discesa del corteo per Via Indipendenza al seguito dei gonfaloni, la cerimonia tocca il top con il minuto di silenzio. La sua efficacia rabbrividente e la sua mistica sospensione non sono state logorate dal tempo. Anzi, semmai, sono accresciute. Dopo di chè si reitera un singolare, ma nondimeno costante, 'rompersi delle righe'. Gli astanti vengono presi da una sorta di disagio psicologico. Si potrebbe dire: una vera e propria sindrome da inadegutezza. Uno scarto fra il sè ed altro dentro la cerimonia. La gente ascolta di malavoglia lo scampolo finale dei discorsi ufficiali. Una parte comincia a sciamare, mentre il rappresentante del governo viene coperto di fischi ed insulti. Alla vista sembrerebbe una esplosione di 'vaffa' in stile grillista, senonchè ad esserne interprete non è uno scampolo di blog people e di qualunquisti. Trattasi di persone anche mature-anziane, assai civili e impegnate. Galantuomini che di norma non sbraitano (e dai quali uno come Cazzola, che adesso conciona, avrebbe molto da imparare...). Bravi contribuenti rispettosi della legge. Ma che nondimeno sentono il bisogno irrinunciabile di dire pane al pane. Per poi rientrare, mansueti come prima, nelle accaldate dimore. Ho già spiegato, e più di una volta, la ragione di questa insofferenza e qui la ripeto in modo conciso. Durante il minuto di silenzio la 'massa' entra in un processo di sublimazione/purificazione, che la configura come un 'corpo' unitario, intriso di misticismo. L'individuo, entrando in questo corpo, viene liberato della sua contingenza. La 'massa', re-identificandosi, acquista una propria autonomia. Di più: una manifesta superiorità, che la colloca in una naturale opposizione al palco delle autorità e a tutto ciò che le appare come miserando in genere. Il rappresentante del governo è trattato per quel che rappresenta: un ectoplasma burocratico, mentre la 'massa'è un cristallo sublimato di pura sostanza psichica. A maggior ragione se l'individuo officiante ci mette il suo, mostrandosi per quel che è conosciuto. Ora, come richiamato, il rito del 2 Agosto, non è solo quanto previsto dal cerimoniale, ma l'insieme di queste dinamiche di fatto. Interroghiamoci: se ogni anno questo rito è così partecipato, nonostante i richiami preoccupati di zelanti commentatori/suggeritori e ogni altro apocrifo-usurpatore (si pensì che un tizio come Monsignor Vecchi ha infilato nella sua omelia persino la condanna della 'pillola del giorno dopo'....), non sarà anche perchè ha preso questa foggia fattuale ? Dunque perchè si dovrebbe correre il rischio di cacciar via, con la presunta 'acqua sporca', anche il bambino ? Teniamocelo così, dunque. A me piace. E ho ragione di pensare piaccia anche alla gente. Capisco che metta imbarazzo a chi si affolla sul palco, e tanto più a chi è dovuto salirci a forza per obbligo istituzionale (come a Zani). Ma così accade. La dinamica stridente palco/massa è un elemento essenziale di verità del rito. Sopprimere questo conflitto, in una procedura finalmente 'pacificata' e ricondotta alla pura 'forma' (al 'li' mandarinale, cioè alla solennità priva di qualsivoglia contenuto), significherebbe espungere ogni pathos dalla cerimonia. Sia perciò come è. 'Finchè dura', cioè finchè la gente vorrà sfidare il caldo d'agosto per vivere questa peculiare esperienza. Quanto durerà ? Suppongo: il tempo necessario. Che non potrà essere accorciato/deformato da improvvisati registi/scenografi. Per come è sollevato (da Balzanelli, ad esmpio) il tema della trasmissione ereditaria ai nati dopo il 2 Agosto, è una scemenza. Come se esso potesse risolversi abolendo i fischi, cioè togliendo la gente ed altri facinorosi dai paraggi, oppure promuovendo qualche lezione civica nelle scuole. Sul tema ho condotto, tanto per cambiare, numerosi sondaggi. Il 2Agosto, la strage del 1980, è l'elemento più significativo, fra i tanti, dell'identità cittadina. L'espisodio inscritto a tinte più forti nella memoria collettiva. Non di tutti, naturalmente. Ma di quella parte che ancora conta: che ha nelle mani la creta per plasmare il profilo di una identità. La quale, quando assume forme maieutiche, ha sempre un fondo drammatico: una catasta di cadaveri, fango, sangue, orrore. E un interrogativo: 'perchè ?'. L'identità, se è tale, è un lutto elaborato collettivamente, la cui necessità resta viva, vibrando nella corteccia emozionale dei contemporanei. Sempre restando nella sociologia della memoria, possiamo anche richiamare che questa istanza psichica è tanto più viva in quanto è assorbita da coscienze in via di formazione. Cioè in uno spazio aperto alla vita a venire, nel quale, proprio per questo, gli episodi suscettivi di una 'narrazione' possono fissarsi in modo indelebile. Primordiale, appunto. Questo è tipico nell'adolescente e nel bambino che avverte, nei discorsi dei familiari e in quanto gli accade intorno, che qualcosa di straordinario ha squarciato il mondo di vita nel quale si è appena affacciato. Qualcosa che non può ancora 'comprendere', ma che può 'sentire' in via intuitiva. E' stato così anche con la guerra e la resistenza. Quello spazio storico-esistenziale ha continuato a riprodursi sino ai nostri giorni non per la costrizione delle narrazioni ufficiali, ma per l'esperienza vissuta e/o (cio' che è veramente importante) 'avvertita'. Non solo nei 'combattenti e reduci', ma nei nati dei '40 e dei '50: a diretto contatto dei testimoni, ascoltando i loro racconti, respirando il clima residuato dal lungo strascico della guerra (almeno sino alla fine dei '50). Perciò il 2 Agosto resterà vivo nei contemporanei per almeno altri 20/30 anni. Fatevene una ragione ! Ci saranno altre lacrime, altre emozioni, altri fischi. Resteremo ancora insieme per molto. Malgré tout. Tra l'altro, nelle pieghe della memoria, giocano anche le 'lacune' e i 'vuoti'. Cosa che ne articola l'aspetto, al caso, imprevedibile e paradossale. Se non annoio il lettore rammento quanto mi riguarda. Il 2 Agosto del 1980 ero alla stazione. Alle sei del mattino, e probabilmente ho anche incrociato, del tutto inconsapevole, chi ha messo la bomba e chi, alle 10,25 di quella stessa mattina, ne sarebbe rimasto dilaniato. Partivo per Linate, assieme alla findanzata, dove avrei preso un charter per gli Stati Uniti. In quell'epoca - è noto - non c'era Internet e neppure si viaggiava con le carte di credito. Telefonare a casa era un problema, e da casa, non disponendo di un recapito fisso, non potevano chiamare. In viaggio, essendo giovani e avendo molte cose da fare, era raro leggere giornali o guardare la televisione. Perciò venni a conoscenza dell strage solo una settimana dopo. Imparai anche che molti amici e conoscenti che sapevano della nostra partenza avevano contattato tremebondi i nostri genitori per sincerarsi della nostra incolumità. Mai la morte mi è stata più vicino nella più assoluta inconsapevolezza ! O forse è sempre così, almeno fino all'attimo ferale nel quale anche la più piccola discronia è azzerata. Stesso luogo, ma con quattro ore di anticipo. In seguito ho continuato a vivere in questa beata incoscienza per molti anni. Facendo le ferie in Agosto (sempre con viaggi lunghi e avventurosi, sfuggendo ad altre catastrofi - ad esempio: il terremoto messicano, una slavina alle Azorre, diversi incontri rabbrividenti nella giungla guatemalteca) non potevo, come ovvio, partecipare alla cerimonia. La strage era, in certo senso, un evento catalogato nella cronaca cittadina. Una astrazione cognitiva, malgrado ci fossi passato letteralmente 'dentro'. Solo con qualche ora di anticipo. Poi una quindicina d'anni fa, dal '99, per ragioni che non sto ad elencare, ho smesso di fare ferie, e le cerimonie del 2 Agosto me le sono fatte tutte. E' stato come tornare sul luogo del delitto quasi ventanni dopo, ogni volta assieme a tutti quelli che in identica data sono accomunati dal non andare in ferie. [tra l'altro anche questo è un aspetto da non sottovalutare; la massa del 2 Agosto che si sublima alle 10,25 è anche una massa agostana già perequata da un diluente del tutto speciale: l'afa cittadina, come tale letteralmente disciolta nella città, mentre il resto del mondo se la spassa in luoghi ameni...]. Fatto sta che ciò che le circostanze avevano rimosso casualmente è riemerso. Poco alla volta, ma sempre più vivo. Ogni 2 Agosto mi vedo giovane, con fidanzata (altrettanto giovane), mentre carico i bagagli sul treno. Ma vedo anche tutto il resto, quelli che avevano quattro ore di ritardo sul mio viaggio per New York. Ne sento alitare il mana. Nel minuto di silenzio è come se le tante vite prallele, le innumerevoli e casuali direzioni della vita si trovassero. Ab origine, nel principio di indeterminazione. Il 2 Agosto, in effetti, è anche questo: un flash back analettico che si ripete. Un bagliore nel quale tutti gli individui presenti si ri-vedono, come nel giorno del giudizio. Succo finale. Questo rito è tremendamente vivo. E lo resterà ancora a lungo. Le mort saisit le vif. E le vif saisit le mort. E' questo abbraccio che crea sgomento. Questo rapimento psichico, ancora ben lungi dall'essere addomesticato nelle vuote cerimonie burocratiche. Vien da pensare: non è che è proprio questa la ragione per la quale tante voci 'responsabili' ci fanno ogni 3 di Agosto (e da qualche tempo anche da prima) il sermoncino sul bon ton ?

INVITO

Iniziativa il 13 Maggio a Bologna,
Circolo Spartaco, ore 20,30


INVITO

Care e cari compagni/amici,
ad oltre un anno dalla nascita del Pd, ed avviandosi al suo primo congresso, è il caso di svolgere un esame approfondito della condizione di crisi che ne sta ostacolando il progetto.

Da porre all’ordine del giorno ci sono varie derive rintracciabili:

nel liberalismo di risulta che, nel programma, ha sostituito l’approfondimento delle culture riformiste;
nel mancato rapporto fra coalizione sociale e rappresentanza politica;
nelle forme organizzative di partecipazione, che hanno surrogato una imprecisata identità organizzativa (il 'partito liquido’);

Constatiamo come siano sempre più rari, anche a Bologna, i luoghi dove possano incontrarsi e riflettere sulle problematiche strategiche molteplici esperienze di iniziativa sociale e politica (come nei sindacati e nelle cooperative, ma non solo). Molte persone sono di fatto divenute estranee al processo politico. Al pluralismo delle idee e all’approfondimento delle analisi va sostituendosi un pluralismo di gruppi ‘politici’ perennemente impegnati in dinamiche a breve, fondamentalmente legate a posizionamenti opportunistici. Vorremmo verificare se c’è qualche modo per riprendere il volo.
In particolare se ci sono le condizioni per

attivare una associazione capace di tematizzare in modo agguerrito e originale i temi del lavoro, dell’uguaglianza, del legame politico e dell’appartenenza, della crisi/trasformazione della società


Per questo è convocata una riunione/dibattito il cui invito è esteso a tutti i lettori di questo messaggio per il giorno Mercoledì 13 Maggio 2009, alle ore 20,30 Via Gianbologna n.4, Ex Casa del Popolo Spartaco, Salone grande La serata sarà presieduta da Cesare Minghini e sarà introdotta da una relazione di Fausto Anderlini dal titolo: Cul de Sac Il Pd, il lavoro, la sinistra, la società. Strade smarrite, sentieri inesplorati, vicoli ciechi Vi aspettiamo numerosi!

Come raggiungerci: consulta la mappa

Una lettera a Piero Fassino su Gaza - Di Tommaso Gennari

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera inviata dall'amico Tommaso Gennari a Piero Fassino.


Gentile Piero Fassino,

Le scrivo come sostenitore morale del PD, quale mi considero, non essendo attivamente coinvolto nel Partito ma essendo simpatizzante per motivi culturali, di formazione, e di motivazione.
Negli ultimi tempi ho seguito con strazio e passione le notizie dei massacri di Gaza, e sto cercando di capire di più della situazione, e di come noi Italiani possiamo aiutare ad impedire ulteriori massacri, e, magari, a mettere la parola fine alla tormentata storia recente della Palestina.

Penso che l'attualità di Gaza debba essere distinta su due piani: da una parte la violenta emergenza dell'uccisione di circa 1.400 persone nello spazio di 3 settimane,
dall'altra la strutturale e storica situazione conflittuale della Palestina, nella contrapposizione tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi rimasti sul territorio che fu mandato palestinese della Società delle Nazioni sotto la gestione effettiva dell'Impero Britannico.

Partendo dall'emergenza più attuale.
Quali che siano i motivi e le ragioni, i fatti sono chiari, evidenti,
lapalissiani. Le forze armate israeliane hanno ucciso, nello spazio di 3 settimane, più di 1.300 persone, di cui più di 300 bambini.
I media internazionali hanno parlato di "guerra", di "fieri combattimenti".
Non sono uno specialista di guerre, ma solo un amatore appassionato di storia militare. Queste definizioni mi hanno lasciato stupito, di fronte alla realtà del campo di battaglia.

Come si può parlare di combattimenti, di guerra, quando da una parte ci sono più di 1.300 morti, di cui più di 300 bambini, e 5.000 feriti, e dall'altra, da quello che ho capito, 13 morti, di
cui 6 soldati uccisi dal nemico sul campo, 4 soldati uccisi dal fuoco amico, e 3 civili uccisi dai razzi sparati sulle città israeliane.

Sono questi fatti, queste evidenti verità, che impediscono al buon senso di chiamare guerra un evento del genere. La parola massacro ha più senso.

Anche a prescindere dai precisi eventi quali il bombardamento delle strutture ONU, della Croce Rossa, delle ONG, delle strutture di assistenza umanitaria pagate dai contribuenti europei, della mancanza di assistenza alla popolazione civile, e della fornitura di informazioni inesatte circa la sicurezza degli edifici date alla popolazione civile, i fatti che citavo in precedenza sono più che sufficienti per istituire un processo per crimini di guerra contro i decisori del massacro.

Giustamente, la comunità internazionale è stata in grado di portare in tribunale il presidente serbo Milosevic, non si capisce perché i decisori delle stragi di Gaza debbano restare impuniti. E mi riferisco sia ai responsabili politici che a quelli militari.

Certo, si può sostenere, non è la prima volta che le forze armate israeliane compiono simili atti di atrocità, e non è la prima volta che nel mondo ne succedono.
Certo, ma il mondo avanza, la civiltà avanza, la costruzione del
progetto europeo avanza, la costruzione di un mondo migliore avanza. Non possiamo adottare queste scuse per impedire alla civiltà di avanzare, e di rientrare nel medioevo.

Concorderà con me. Mi dirà, anche i responsabili politici e militari di Hamas sono responsabili di omicidi di guerra, verso civili e militari. Certo, concordo, e penso che anche essi vadano giudicati da un tribunale internazionale.
A parte che, probabilmente, la maggior parte di loro sono già stati assassinati dalle forze di sicurezza israeliane. Concordo che i superstiti vadano giudicati.
Ma le colpe di Hamas non devono essere un paravento per le atroci colpe dei decisori di parte israeliana in questi ultimi eventi di Gaza.
Un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra commessi a Gaza sarebbe una speranza di pace e giustizia per il futuro. Un suo insabbiamento non potrà che portare altri morti e sofferenze in quella regione dilaniata.

Le persone sono sensibili alle giustizie e alle ingiustizie subite. La giustizia è un sentimento universale, che qualsiasi essere umano è in grado di provare.
Lasciamo agli specialisti l'individuare quali precisi crimini di guerra abbiano compiuto le forze armate israeliane, se genocidio, punizione collettiva, mancata assistenza alla popolazione civile, uso di armi al fosforo, o altro.
Importante è che si faccia.

A fronte di un governo italiano senza spina dorsale, per i penosi motivi che tutti sappiamo, è di cruciale importanza il Suo attivo impegno in questo senso. La splendida lettera che il Presidente Napolitano ha inviato nei giorni scorsi al Presidente Egiziano dà lo spazio di azione all'Italia in questo senso.

Ovviamente, essendo il PD all'opposizione, manca dei mezzi sostanziali per poter dispiegare una politica attiva a 360 gradi. Nondimeno, qualsiasi azione formale e informale possa essere fatta in questo senso deve essere tentata.

Sullo sfondo dei tragici eventi di questi primi giorni di gennaio, c'è poi tutta la complessità del conflitto tra lo Stato di Israele e gli ultimi nativi della Palestina non residenti dello Stato israeliano. Le soluzioni sono qui certamente più complesse, e mi permetto solo di avanzare solo un suggerimento.
A monte resta di primaria importanza tenere separati i concetti di giudaismo/ ebraismo come religione e tradizione culturale, del progetto sionista di casa nazionale, e dell'esistenza de facto dello Stato di Israele.
Alcuni commentatori hanno fatto paralleli con la situazione dell'Irlanda del nord. È vero, ci sono analogie, ma trovo che vi siano anche analogie con la colonizzazione del nord America da parte della Francia e dell'Inghilterra.

Non è ormai più possibile mettere in discussione l'esistenza dello stato di Israele, ma questo stato stesso dovrebbe concordare con l'esistenza del suo peccato originale di nascita, così come Canada e USA hanno fatto verso i nativi americani. La grande differenza di situazione è che i tempi sono straordinariamente diversi (e anche gli spazi).
Ma, come dicevo prima, oggi siamo ad uno stadio diverso di civiltà: le violenze che venivano commesse in passato non sono più accettabili, i tempi sono più veloci.
È un fatto che lo stato di Israele è risultato vincitore nella lotta per il possesso del territorio, della sua colonizzazione. Essendo in posizione di vincitore del conflitto, deve riconoscere ora i torti fatti alle popolazioni native, deve compensare i discendenti delle perdite subite, e riconoscere il diritto alla dignità e alla diversità culturale delle popolazioni presenti.

Dal punto di vista culturale è certamente una operazione lunga e complessa, piena di ostacoli. Un avvicinamento di Israele verso i valori fondanti della comunità europea, i valori di coesistenza civile frutto della tormentata storia europea della prima parte del secolo scorso, potrebbe essere utile in questo senso.

La ringrazio dell'attenzione, le invio i più cordiali saluti e tanti auguri per il futuro del PD,

Tommaso Gennari


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Società rotonda, anzi rotatoria

di Ilvo Diamanti

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie.
In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare. Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor. Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi crescono, diventano grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici. E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale. La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page". Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo. Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano".
Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale. Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia. Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento. Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione.
Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo.
Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo.
E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario. La rotonda. La rotatoria.
Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri. Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman.
Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

("La Repubblica", 23 gennaio 2009)